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Antonio Rosmini: l’amicizia tra fede e ragione

Giugno 2005
Giuseppe Lorizio
Ordinario di Teologia Fondamentale - Pontificia Università Lateranense

A un secolo e mezzo di distanza dalla morte di Antonio Rosmini (1797-1855), il più grande filosofo e teologo dell'Ottocento italiano, non sembra possa essere elusa la domanda intorno a ciò che resta vivo del suo imponente lavoro speculativo e di quella “enciclopedia cristiana” vagheggiata e programmata come antidoto a quella illuministica e al tempo stesso luogo di espressione di una fede cattolica capace di incidere le diverse forme del sapere in cui l'umano conoscere si attua. Ci sembra pertanto di poter individuare il punto focale e di non ritorno (ciò che resta vivo) del “sistema” rosminiano proprio nel tentativo, perseguito senza alcun risparmio di energie e con attenzione da un lato alla filosofia e alla teologia e dall'altro alle varie forme del sapere scientifico (dalla matematica alla medicina), di armonizzare la fede e la ragione, impiantando tale rinnovata amicizia nel cuore della modernità e quindi non limitandosi a ripetere modelli di integrazione, senz'altro riusciti, ma appartenenti ad altre epoche storiche e ad altri contesti. Di qui anche le incomprensioni e le catture interpretative che il pensiero di Rosmini ha dovuto subire: le prime da parte del mondo ecclesiastico e le seconde da parte della cultura laicista ed idealistica.

Fin dagli anni giovanili e mentre andava vagheggiando quel progetto enciclopedico di cui sopra, il Roveretano, in una composizione degli anni dell'adolescenza, Il giorno di solitudine (1814-1816), aveva voluto rappresentare ed immaginare tre donne alle quali affidare il proprio cammino nell'affacciarsi alla vita adulta: l'Amicizia, la Filosofia e la Religione. Ciascuna di esse canta una “canzone” che la descrive e ne indica i compiti presso l'Anima dell'adolescente. Sappiamo sia dall'epistolario che dalle biografie quanto fosse importante per Rosmini l'esperienza dell'amicizia e come l'abbia vissuta in profondità anche con illustri personaggi che la Provvidenza gli ha fatto incontrare: da Tommaseo a Manzoni, da Mellerio a Cavour ecc. Esperienze non sempre facili da gestire, ma sempre improntate alla reciproca stima e fedeltà. Fra i tanti progetti falliti del giovane Rosmini non possiamo dimenticare quello concernente la “Società degli Amici”, come luogo in cui raccogliere ingegni e far convergere energie nel tentativo di sviluppare quella incidenza della fede cristiana sulla cultura, cui egli dedicherà tutta la sua vita.

Ma l'amicizia che al Roveretano sta maggiormente a cuore e che rende il suo pensiero, pur nella sua inattualità, di perenne attualità, sta nel fecondo rapporto tra fede e ragione, fra teologia e filosofia e tra queste e le scienze umane ed empiriche. Un rapporto sinfonico che nasce dalla profonda convinzione, che anima tutta la sua ricerca, dell'unità del sapere, che a sua volta risulta fondato sulla unità della verità. Già la Prefazione al Nuovo Saggio sull'origine delle Idee (1831), lasciava intravedere, in alcuni suoi passaggi fondamentali, i possibili sviluppi della meditazione rosminiana sull'essere: «Unico dunque è il principio del Cristianesimo, la Verità , e la Verità pure è il principio della filosofia; se non che, come in questa la verità si mostra solo per una regola della mente, così in quello ella ci si porge compiuta e intiera in se medesima sussistente siccome una persona divina, la quale parte luce in noi ed opera efficacissima nell'essenza del nostro spirito, e parte velata ed occulta si fa oggetto venerando alla nostra Fede e argomento infinito di tutta nostra speranza». Poco più avanti definisce la filosofia “propedeutica alla vera religione” e la “verità naturale” come un “crepuscolo del Verbo divino”, mentre «tutti gli sforzi dell'inferno del secolo scorso non hanno giovato che a dar nuova prova del nulla degli uomini, e della onnipotenza di quel Redentore che ha rese sanabili le nazioni, al quale ogni ostacolo è mezzo, e mezzo necessario e calcolato, che aiuta a compire gli indeclinabili destini della parola evangelica». Ecco l'ineffabile fondamento del sapere filosofico: «l'Iddio Uno e Trino fu disvelato agli uomini: il Maestro svelò se stesso, e così lo scibile dell'umanità».

Se questo è il compito e l'impegno di ogni intellettuale credente, bisogna anche constatare che, nelle modalità proprie del suo svilupparsi ed esprimersi il “sistema” rosminiano, non si lascia catturare o annettere ad alcuna scuola di pensiero filosofico o teologico sia ad esso contemporanea, sia successiva e a noi più vicina. Ogni interpretazione che tenti tali improbabili annessioni risulterà impropria e falsificante. Più volte questa preoccupazione è stata espressa con la formula: Rosmini va spiegato con se stesso e non in riferimento ad altri Autori o ad altre appartenenze. Ma non sempre, anche oggi e in ambito teologico, si riesce a mettere in campo interpretazioni coerenti con questa indicazione ermeneutica, che è possibile solo attraverso una metodologia di approccio genetica e diacronica a quel grande cantiere aperto che è l'universo rosminiano.

L'attenzione all'amicizia tra fede e ragione si esprime, nel percorso rosminiano, proprio là dove sembrerebbe imporsi la lacerazione e la lotta: il grande tema della teodicea e del dolore innocente. L'opera del 1845 che porta appunto il titolo di Teodicea è frutto di una elaborazione lunga e faticosa, che trova il suo primo nucleo nel Saggio sulla divina Providenza del 1826. Alla teodicea apofatica di Kant, che aveva dichiarato (1791) l'impossibilità di ogni tentativo filosofico di dar ragione del male, e alla teodicea razionale di Hegel, che l'aveva identificata con la filosofia della storia, Rosmini oppone una “teodicea cristocentrica”, che risulta filosofica e teologica insieme. Al cammino della filosofia il compito di individuare i limiti e i confini dell'umana ragione in rapporto al mistero del male e del dolore innocente, al sapere della fede (= teologia) quello di mostrare nell'evento del Crocifisso Risorto l'unica ed universale risposta possibile a un problema, che «solo nell'ordine soprannaturale può trovare soluzione». Il superamento della voragine tra fede e ragione, che la riflessione sul male porta, è possibile solo a partire dalla prospettiva soprannaturale. La dottrina delle tre forme dell'essere e del loro sintesismo, momento culmine della filosofia cristiana, costituisce una sorta di ponte di corde, aggrappandosi al quale, non senza rischi, si può cercare di superare l'orrendo fossato. Le aporie ci fanno sobbalzare e mettono a dura prova il coraggio speculativo del lettore, che non ha di fronte né il pericoloso salto nel buio della fede cieca, né il comodo ponte di una ragione rassicurante e paga delle sue certezze, ma appunto il faticoso arrampicarsi sulle funi della metafisica credente in un tentativo di teodicea, che non si nasconde lo scacco degli sforzi della pura ragione di spiegare il senso della storia. La stessa Teodicea , già alla fine del secondo libro, contiene alcune pagine in cui è descritta l'opera della grazia nella storia, al fine di condurre l'uomo all'autentico esercizio della virtù morale, perché un'idea «troppo leggera e quasi aerea è l'astrazione della virtù; ed il cuore dell'uomo non s'appagherebbe giammai di unirsi in perpetuo a fantasma sì languido, anziché alle cose che vede cogli occhi suoi e che tocca colle sue mani». Ecco allora che la grazia del Salvatore sopraggiunge a dare corpo e realtà all'idea astratta di virtù, «mostrando in essa Dio stesso; solo la grazia del Dio-uomo potea rafforzare le forze della volontà e raccendere un amore incommensurabile nell'agghiacciato cuore dell'uomo». Questa operazione della grazia non si sovrappone estrinsecamente alla natura, bensì viene in suo aiuto sottoponendosi alla legge della gradualità temporale propria dell'essere storico che è l'uomo. Quella di Rosmini allora non è una ragione rassegnata al non senso e all'assurdo, ma un pensiero che si lascia redimere (restaurare) e, redento, continua ad esercitarsi all'interno dell'orizzonte credente, assumendo di volta in volta la figura della teologia e della filosofia cristiana.

L'amicizia tra fede e ragione, così come il Roveretano l'ha pensata e perseguita, trova il suo culmine ed il suo orizzonte di senso in quella dimensione sapienziale della conoscenza, che verrà ad esprimersi e formalizzarsi nell'ultima grande opera, che Rosmini ci consegna, nello stato di un gigantesco frammento: la Teosofia. L'incontro con questo testo fondamentale deve essere sempre guidato dalla consapevolezza sia del suo carattere frammentario, sia del fatto che esso fa parte delle opere postume e in quanto tale necessita di grande cautela da parte di chi vi si accosta. La fatica del compito viene tuttavia abbondantemente ripagata dal confronto con contenuti che costituiscono non solo un luogo del pensiero rosminiano, ma anche il fondamento stesso del suo edificio speculativo. Tale fondamento, che Rosmini chiama “misterioso”, è il dogma trinitario in tutta la sua pregnanza teologica e filosofica. Dopo aver precisato il rapporto analogico (quindi non di identità) caratterizzante le tre forme dell'essere in relazione al mistero trinitario, il Roveretano non si fa scrupolo di affermare che tale mistero non solo può, ma deve essere “ricevuto”, ossia ri-conosciuto ed accolto, dalla filosofia. Né egli si sottrae alla domanda sulla possibilità di una confusione tra i due ambiti del sapere chiamati in causa. «È dunque indispensabile – scrive – che fin d'adesso giustifichiamo questo nostro sdruscire, colle nostre ricerche intorno all'essere, nella sfera teologica, ed anzi toccarne le cime. Il che ad alcuni potrebbe parere contrario al metodo filosofico, al quale è prescritto camminar sempre per una via di raziocinio, senza che nulla possa in questa sfera l'autorità, se non fosse per accidente, cioè per confermare con essa e rendere più persuasiva la rettitudine dello stesso raziocinio, vedendolo formato egualmente da più menti, o da più menti confermatone il risultato. Ora non è punto introdurre nella scienza filosofica l'autorità della rivelazione, quando non ci serviamo del peso di questa per dimostrare le proposizioni che dimostriamo».

Il discorso dunque sarà fondato sulla rivelazione quanto al suo punto di partenza, mentre si avvarrà della ragione e non di argomenti di autorità nel suo procedimento. I suoi risultati, poi, perverranno ad una “dimostrazione” filosofica della Trinità che sarà necessariamente: a) indiretta , «come indirette sono le dimostrazioni che i matematici conducono dall'assurdo, e non sono meno efficaci per questo» e b) deontologica , «perché dimostra, non che la cosa sia così, ma che deva esser così; e questo modo pure, se è in regola, dà una certezza irrefragabile». La rivelazione dell'essenza di Dio come uno e trino ha dunque una ricaduta filosofica di enorme portata. Rosmini ad esempio accenna alla mirabile soluzione del problema dell'uno e del molteplice, che il Cristianesimo propone: «Escluso dunque il sistema degli unitarî, come impossibile, rimane che ci sia qualche molteplicità coeterna all'essere. Ma questa non deve togliere la perfetta unità e semplicità dell'essere; e quindi la difficoltà di quell'antinomia, che ha fatto delirare, se mi si permette di così esprimermi, la filosofia di tutti i secoli, a cui Cristo ha soddisfatto, ma rivelando il mistero. Dal qual mistero però venne un rinforzo di luce alla stessa intelligenza umana, che si mise all'opera di rispondere in qualche modo a quel problema più istrutta e cautelata contro gli errori». Il mistero dell'amore trinitario non può lasciare indifferente il filosofo, al quale anche «convengono quelle nobilissime e verissime parole, che diceva Gregorio della Triade augustissima: “Mi sforzo di comprenderne l'unità, e già i raggi ternari splendono intorno a me: tento di distinguerli, e già mi hanno ricacciato nell'unità”. Questo sublime mistero – continua il Roveretano – dunque è il profondo e immobile fondamento, su cui si possa innalzare l'edificio non solo della dottrina soprannaturale, ma anche della Teosofia razionale».

Il fondamento ritrovato come punto di arrivo di tutto il cammino sarà anche nuovo punto di partenza di quel rapporto di amicizia tra fede e ragione, che ha sempre bisogno di rinnovarsi e di esprimersi e che ciascuno è chiamato a realizzare nella propria ricerca interiore e nel proprio lavoro intellettuale.