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La sera di un 16 ottobre di venticinque anni fa

Ottobre 2003
Giuseppe Tanzella-Nitti
ordinario di Teologia fondamentale - Pontificia Università della Santa Croce

Non è frequente che un pontificato giunga a coprire l’arco di un quarto di secolo. Fra i successori di Pietro era accaduto soltanto a Pio IX e a Leone XIII. Il vento leggero di quella serata romana di venticinque anni fa, propagandosi in ogni direzione, ha finito col raggiungere spazi e ambiti dove non lo si sentiva spirare ormai da un pezzo. Se alcune immagini del pontificato di Giovanni Paolo II, per il contesto e i personaggi coinvolti, sono destinate a restare impresse a lungo nella memoria, dalle sofisticate memorie digitali che le hanno immortalate a quella personale di ciascuno di noi, ve ne sono altre che corrispondono ad ambienti e a volti forse meno noti, ma non meno importanti, ugualmente investiti da quel vento d’ottobre. Sono gli ambienti della cultura e della ricerca scientifica, dell’università e della vita intellettuale, il cui rapporto con Giovanni Paolo II è stato di singolare intensità, se paragonato a quello di altri pontificati. Un rapporto privilegiato espresso attraverso un magistero pronunciato in laboratori di ricerca e in aule universitarie, affidato a lettere scritte rapidamente e di proprio pugno o a documenti preparati a lungo e fortemente voluti. Insegnamenti che non hanno avuto l’impatto mass-mediale delle grandi encicliche sociali o delle conversazioni a quattr’occhi (tenute nella medesima lingua dei suoi interlocutori) con Gorbaciov o Fidel Castro; riflessioni rivolte a platee numericamente assai diverse da quelle dei cinque milioni di persone di Manila o dei due milioni di giovani “giubilanti” della Giornata mondiale della Gioventù a Roma, ma che hanno raggiunto menti e intelligenze le cui scelte possono condizionare, o per lo meno orientare, la vita di folle assai più numerose.

Forse i più penseranno che dopo un primo sussulto di sorpresa di fronte ad un papa che, anche in questo caso, sapeva parlare assai bene la lingua dei suoi interlocutori, perché anch’egli professore universitario e poeta, artista e uomo attento ai risultati delle scienze, gli ambienti intellettuali e scientifici non abbiano in realtà mostrato dei cambiamenti sensibili dovuti a questo pontificato. Uno sguardo a quanto avviene tuttora nel campo delle biotecnologie o della difesa dell’ambiente, il diffondersi del consumismo nonostante i ripetuti appelli a procurarsi beni che arricchiscono la vita dello spirito, le gravi incertezze circa il riconoscimento delle radici culturali cristiane della civiltà europea, la persistente frammentazione del sapere, ancora incapace di generare nei Paesi occidentali un progetto di formazione universitaria teoreticamente coerente e, per questo, anche più efficace sul piano pragmatico: tutti questi fattori parrebbero dar ragione a chi ritiene che le parole di un papa abbiano paradossalmente mutato il corso della storia, ma non siano state sufficienti a mutare il corso della cultura dominante. In realtà siamo dell’avviso, a ben vedere, che le cose non stiano proprio così. Chi frequenta le università e gli istituti di ricerca scientifica sa, per propria esperienza, che quanto Giovanni Paolo II ha detto e scritto non è affatto passato inosservato. E non soltanto per le numerosissime pubblicazioni o altri generi di media spesso realizzati da queste medesime istituzioni, desiderose di far memoria degli incontri avuti con il papa e degli insegnamenti rivolti in quelle occasioni. In realtà, questi insegnamenti hanno attraversato la coscienza di numerosi intellettuali, spingendoli a riflettere su aspetti centrali del loro lavoro, sulle sue ripercussioni sulla società e la vita dei popoli. Aspetti che prima d’ora erano rimasti inavvertiti, forse sopiti, o comunque più difficilmente percepiti senza l’aiuto di qualcuno, quello di un papa filosofo, che invitasse a fermare la ruota dell’immediato e dell’utile, per tornare a ripensare la rotta lungo la quale si stava navigando.

Il magistero di Giovanni Paolo II, è vero, non ha impedito che nella ricerca scientifica vi fosse chi continuasse a porre in pericolo il futuro dell’uomo, né ha convertito d’un tratto la debolezza del pensiero del Novecento restituendogli l’audacia per far rientrare nell’ambito proprio del filosofare domande ritenute ancora troppo “forti”, prima fra tutte quella su Dio. Eppure, quanto Giovanni Paolo II ha detto sul significato della cultura rivolgendosi all’Unesco (1980); sull’autonomia della ricerca scientifica e il rischio di una visione funzionalista della scienza parlando agli intellettuali riuniti nella Cattedrale di Colonia (1980); sulla natura e la missione dell’università nei discorsi agli Atenei di Bologna (1982), Padova (1982) o Torino (1988); sul valore positivo della tecnologia, proprio in una cornice drammatica e densa di significati come quella di Hiroshima (1981); sulla necessità che i teologi conoscano e utilizzino i risultati certi delle scienze naturali senza temere la verità, come da lui raccomandato in un’importante lettera al direttore della Specola Vaticana (1988); o, ancora, l’orientamento da lui impresso ai lavori della Pontificia Accademia delle Scienze, fino ad affrontare i temi chiave del “caso” Galileo (1979-1992) e dell’evoluzione biologica dell’essere umano (1996); il chiarimento profondo sui rapporti fra fede e ragione offerto da un’enciclica, la Fides et ratio (1998), la cui finalità non era certo la difesa della fede, ma quella della ragione; il richiamo al valore della bellezza come intramontabile accesso a Dio, sviluppato in una originale Lettera agli Artisti (1999); questi ed altri pronunciamenti hanno fatto e continuano a far riflettere uomini e donne che non hanno perso il coraggio di interrogarsi sulla verità, che considerano la loro attività intellettuale come un servizio cui è legata una specifica responsabilità. Gli insegnamenti di Giovanni Paolo II su questi temi rappresentano un corpo di riflessioni coerente e comprensibile, frutto di competenza e di sensibilità personali, non dettato da meri obblighi di circostanza, qualcosa che precede i ricercatori, piuttosto che rincorrerli. Ed è questo il motivo per cui un giudizio che svalutasse i risultati di un simile magistero, misurandoli soltanto sui suoi esiti visibili e immediati, o sugli stereotipi di quel rapporto fra cristianesimo, scienza e cultura che alcuni media continuano ancora oggi a presentarci, mostrerebbe di avere la vista troppo corta, non comprendendo quanto sia avvenuto e continui ad avvenire nell’intimo di molte coscienze.

Un venticinquesimo anniversario suggerisce di tracciare un bilancio di questo pontificato in molteplici terreni. Molti pongono giustamente in luce gli apporti alla dottrina sociale della Chiesa, il contributo dato alla caduta di alcuni storici totalitarismi, il progresso registrato nell’ecumenismo e nel dialogo inter-religioso, la difesa della vita umana e dei diritti dei più deboli, gli importanti, e talvolta inediti, sviluppi intrapresi dalla Chiesa nel campo dei mezzi di comunicazione di massa (ed il conseguente cambio di immagine che ne è derivato). Vogliamo qui brevemente ricordare alcune delle idee guida consegnateci da Giovanni Paolo II su un terreno che riteniamo oggi di speciale interesse, quello dei rapporti fra fede e cultura, la cultura scientifica in modo particolare.

In primo luogo va ricordato il fatto che questo papa ha parlato volentieri con gli scienziati. Li ha voluti attorno a sé per ascoltarli, ancor prima che per catechizzarli. Chi ha avuto la fortuna di partecipare alle prime edizioni dei seminari estivi tenuti in forma privata a Castelgandolfo, ricorderà l’immagine del papa in un terrazzino della Villa Pontificia, seduto in modo informale accanto agli altri studiosi, o dietro un piccolo tavolino per prendere appunti. In questo e in altri consessi egli portava la sua specifica competenza, quella di antropologo e di professore di etica, e la sua vasta, profonda cultura generale, posseduta e trasmessa in modo sempre esistenzialmente significativo, perché maturata nelle drammatiche esperienze della persecuzione e della clandestinità, condivisa con un popolo sofferente ma orgoglioso della propria identità religiosa e culturale.

Passando dalla cattedra di etica a Lublino a quella di Pietro a Roma, su cosa ha maggiormente insistito questo papa quando si è riunito insieme a suoi colleghi? Fin dai primi mesi di pontificato Giovanni Paolo II invita alla concezione di «una fede che deve diventare cultura» e ne fa uno dei principi basilari di molti suoi successivi interventi. «La sintesi fra cultura e fede — afferma — non è solo un'esigenza della cultura, ma anche della fede... Se, infatti, è vero che la fede non si identifica con nessuna cultura ed è indipendente rispetto a tutte le culture, non è meno vero che, proprio per questo, la fede è chiamata ad ispirare, ad impregnare ogni cultura. È tutto l'uomo nella concretezza della sua esigenza quotidiana, che è salvato in Cristo ed è, perciò, tutto l'uomo che deve realizzarsi in Cristo. Una fede che non diventa cultura non è una fede pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (Discorso ai partecipanti al Congresso Nazionale del Movimento Ecclesiale di Impegno culturale, 16 gennaio 1982). Una fede “interamente pensata” è una fede che dialoga anche con la cultura scientifica, che sa “pensare le proprie ragioni” senza escludere questa importante forma di razionalità. Essa non è certamente l’unica fra tali forme, ma forgia gran parte del modo di intendere e di agire degli uomini del nostro tempo. La teologia deve lasciarsi “provocare” dalle domande delle scienze naturali, ma, a sua volta saper provocare anch’essa queste scienze, con le risposte che è la Rivelazione a donarci, quelle sul senso ultimo del cosmo e della nostra vita in esso. Esorta i teologi ad una maggiore competenza nel conoscere e valutare i risultati della ricerca scientifica, evitando, se possibile, superflue mediazioni, e chiedendo loro di impiegarli, quando necessario, anche come fonte positiva di speculazione nella propria elaborazione intellettuale. Agli scienziati chiede di non cedere alla tentazione del riduzionismo, di sapersi stupire di fronte al mistero dell’universo e della vita, di saper cogliere sempre l’eccedenza della realtà, della vita umana in particolare, rispetto agli strumenti che impieghiamo per studiarla. L’attività scientifica è capace di suscitare domande filosofiche e talvolta perfino religiose: lo scienziato deve saperne riconoscere la significatività, sebbene sappia che i metodi empirici non sono adeguati, da soli, ad affrontarle.

Giovanni Paolo II parla della scienza come di un’attività pienamente “umana”, coinvolgente e personale. Essa è un bene in sé stessa e deve legare alla verità e al bene. Supera così la visione di una scienza “neutra”, puramente strumentale o funzionale, contro la quale indirizzerà parole forti ed esplicite nello storico discorso del 1980 a Colonia: «Oggi — affermava in quell’occasione — di fronte alla crisi del significato della scienza, alle molteplici minacce che insidiano la sua libertà, e alla problematicità del progresso, i fronti di lotta si sono invertiti. Oggi è la Chiesa che prende le difese: della ragione e della scienza, riconoscendole la capacità di raggiungere la verità, il che appunto la legittima quale attuazione dell'umano; della libertà della scienza, per cui questa possiede la sua dignità di un bene umano e personale; del progresso a servizio di una umanità, che ne abbisogna per la sicurezza della sua vita e della sua dignità». Gli interrogativi etici non vengono imposti dall’esterno alla considerazione dello scienziato: come uomo, egli li percepisce dall’interno della sua attività e non può demandarli ad altri, scrollandosene la responsabilità. Il papa chiarisce più volte che la convinzione che la scienza sia capace di legarsi alla verità, evitando i rischi del relativismo o dell’assolutismo ideologico, è proprio ciò che la protegge dai condizionamenti esterni e difende la sua autonomia di fronte alla società e agli Stati. Una scienza “filosoficamente” debole, anche se può essere tecnologicamente forte, diviene invece più facilmente vittima di fini eteronomi e di manipolazioni da parte di chi muove le leve del consenso e del potere. Giovanni Paolo II non ha paura di affermare che la tecnologia ha cambiato positivamente il nostro modo di vivere ed è testimonianza della trascendenza dell’uomo sulla natura. Essa può e deve essere orientata dalla ragione: la tecnologia non si sviluppa come risultato di un cieco fatalismo o di un impersonale, inarrestabile progresso la cui legge intrinseca sarebbe unicamente quella di non venire limitato da niente e da nessuno; è piuttosto il risultato di scelte libere le quali, proprio per questo, sono al tempo stesso cariche di responsabilità. La libertà di ricerca è sempre, e comunque, libertà del ricercatore. Il richiamo ai limiti della scienza non è, in Giovanni Paolo II, mai retorico, perché sempre accostato al richiamo a riflettere sui fondamenti del conoscere scientifico. I rapporti con la filosofia non interessano un piano orizzontale, ma si sviluppano piuttosto su un piano verticale.

Agli universitari non rimprovera la progressiva specializzazione dei saperi, ma segnala il rischio di studiare una disciplina “non curando più il contesto, almeno intenzionale, di tutte le altre”, come dirà a Torino, pena snaturare l’università come luogo di dialogo e di interdisciplinarità. Trovare lo spazio perché l’università mantenga uno sguardo a 360 gradi sulle domande importanti per l’uomo non vuol dire impegnarsi a formare dei tuttologi, ma degli uomini colti. Sarà questa cultura, nata dall’umiltà del dialogo e dell’ascolto, ad evitare i pericoli del riduzionismo e dell’assolutizzazione, quando un solo metodo viene erroneamente assunto a chiave di comprensione esaustiva dell’intera realtà. L’università è chiamata a servire lo sviluppo del territorio in cui sorge, ma a farlo con un respiro universale e non provinciale. Anzi, gli uomini dell’università, proprio per la loro attitudine a risolvere i problemi in un contesto di cooperazione internazionale, hanno la particolare responsabilità di farsi carico delle emergenze planetarie, risolvendo i problemi legati allo sviluppo dei popoli in un clima di collaborazione e in spirito di servizio all’uomo, perché viviamo in un’epoca in cui “tutti dobbiamo essere responsabili di tutti”, e il sottosviluppo di un popolo si converte, presto o tardi, in ostacolo allo sviluppo e al progresso pacifico di tutti gli altri. Giovanni Paolo II ha un’idea alta di università, forse troppo ideale, come qualcuno ha rilevato criticamente. Ma egli fa appello alle coscienze dei docenti e degli studenti, e questo riconduce la questione universitaria dai problemi strutturali e materiali al suo ambito più proprio, ricordando che i rapporti fra docenti e studenti e il rapporto di ciascuno con la verità, sono anche, e sempre, una questione di coscienza.

Molto si è scritto sulla fede degli scienziati e degli intellettuali dei nostri tempi. I modelli offerti all’opinione pubblica sono assai svariati e non di rado contraddittori. Forse contraddittoria è perfino in alcuni l’immagine di Dio, quando cercato solo con la ragione o in nome della ragione combattuto o negato. L’apertura alle dimensioni dello spirito prende in molti scienziati forme nuove, che paiono distanziarli dalla tradizione cristiana per avvicinarli a tradizioni filosofiche orientaleggianti, quando non a confuse percezioni del sacro ormai incapaci di legare ad una vera religione. Fra i credenti non è raro il rischio del fideismo, facile scappatoia quando ci si dimentica che l’universo materiale della scienza è anche l’universo creato e mantenuto in essere da Dio, o la perenne tentazione del concordismo, che cerca sostegni alla fede lì dove non sarebbe per nulla necessario cercarli. Ma vi sono anche coloro, non meno numerosi, che credono sinceramente nella ricerca della verità e si accostano alla fede cristiana, o già la vivono, con una onestà intellettuale analoga a quella che impiegano quotidianamente nel loro lavoro di ricerca. A tutti questi uomini e donne, ne siamo persuasi, gli insegnamenti di Giovanni Paolo II in venticinque anni di pontificato hanno dato certamente qualcosa, e a ciascuno di loro il magistero del papa ha offerto la concreta possibilità di aggiungere importanti elementi per la propria maturazione intellettuale e spirituale. Soprattutto, ha insegnato a tutti che se la fede non ha nulla da temere da una scienza capace di conoscere la realtà e di tendere alla verità, neanche la scienza ha nulla da temere da una fede, quella cristiana, disposta anch’essa a mantenere sempre l'aggancio con il reale, e annuncia a tutti il Dio di Gesù Cristo come Colui che ha fatto il cielo e la terra. E di questo siamo, a Giovanni Paolo II, profondamente grati.