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Le mie opinioni religiose

Charles Darwin
1882

Autobiografia 1809-1882

Riportiamo alcune riflessioni autobiografiche di Charles Darwin circa il suo rapporto con la religione, come presenti nell’edizione della Autobiografia curata da sua nipote Nora Barlow (1885-1989), contenente passi omessi e note mancanti nelle precedenti edizioni. Seguiamo il testo publlicato da Collins (London, 1958) e proposto in traduzione italiana da Giuseppe Montalenti e Luciana Fratini (Einaudi, Torino 1964). Il lettore potrà così conoscere le obiezioni alla religione manifestate da Darwin, valutandole sullo sfondo delle risposte che potrebbero oggi essere fornite da una adeguata fenomenologia della religione e da una corretta teologia cristiana. Alle obiezioni di carattere razionalistico, tipiche del contesto ottocentesco in cui scriveva lo scienziato inglese, viene affiancato il classico argomento circa il male nel mondo, ma anche l’affermazione della istintiva natura etica dell’essere umano, questi ultimi inquadrati in un clima di interrogazione e di sensibilità che pare aperto alla percezione di una coscienza morale. Pur nella frammentarietà delle riflessioni, non scevre da alcune incompletezze e incoerenze, Charles Darwin si qualificherà una volta teista e una volta agnostico. Così le sue affermazioni: «Un altro argomento a favore del’esistenza di Dio, conesso con la ragione più che col sentimento, e a mio avviso molto importante, è l’estrema difficoltà, l’impossibilità quasi, di concepire l’universo, immenso e meraviglioso, e l’uomo, con la sua capacità di guardare verso il passato e verso il futuro, come il risultato di un mero caso o di una cieca necessità. Questo pensiero mi costringe a ricorrere a una Causa Prima dotata di un’intelligenza in certo modo analoga a quella dell’uomo; e mi merito così l’appellattivo di teista». E poco più avanti: «Il mistero del principio dell’universo è insolubile per noi, e perciò, per quel che mi riguarda, mi limito a dichiararmi agnostico».

Durante quei due anni [ottobre 1836 – gennaio 1839] meditai molto sulla religione. Quando ero imbarcato sul Beagle ero di un’ortodossia perfetta e ricordo che parecchi ufficiali, nonostante fossero anch’essi credenti, mi derisero perché facevo appello alla Bibbia come a un’autorità inconfutabile su certe questioni morali. Penso che fossero divertiti dalla novità dell’argomentazione. Ma già a quel tempo ero prevenuto, gradualmente, a rendermi conto come il Vecchio Testamento, per la sua storia del mondo così manifestamente falsa, con la Torre di Babele, l’arcobaleno come presagio, ecc., per la sua attribuzione a Dio dei sentimenti di un tiranno vendicativo, non meritasse più fede dei libri sacri degli indù o della credenza di qualsiasi barbaro. Il problema che si poneva alla mia mente, e da cui non riuscivo a prescindere, era questo: come si può credere che se Dio facesse oggi una rivelazione agli indù permetterebbe loro di connetterla con la fede in Visnù, Siva, ecc. così come il cristianesimo è connesso con il Vecchio Testamento? Francamente ciò mi sembrava incredibile.

Rimuginavo inoltre altri pensieri: che soltanto le prove più palesi potrebbero convincere un uomo sano di mente a credere nei miracoli su cui si basa la fede cristiana; che quanto più conosciamo le leggi della natura, tanto più è difficile credere nei miracoli; che a quei tempi gli uomini erano creduli e ignoranti a tal punto che oggi ci sembra incomprensibile; che non si può dimostrare che i Vangeli siano stati scritti contemporaneamente ai fatti che raccontano; che essi differiscono per molti particolari importanti, troppo importanti per essere considerati come le solite inesattezze di testimoni oculari. Per tutte queste riflessioni, certo prive di qualsiasi valore e originalità, ma molto decisive per me, persi gradualmente la fede nella religione cristiana in quanto verità rivelata. Non potevo non attribuire importanza al fatto che molte false religioni si fossero diffuse come un incendio su vaste aree della terra. E non si può negare che la morale del Nuovo Testamento con tutto il suo fascino deve gran parte della sua perfezione alla interpretazione che noi oggi diamo alle metafore e alle allegorie.

Fui però molto riluttante a rinunciare alla mia fede, e ricordo molto bene di aver sognato spesso a occhi aperti che a Pompei o altrove erano state trovate antiche lettere di patrizi romani o manoscritti che confermavano in maniera inconfutabile  tutto ciò che era scritto nei Vangeli. Ma col passare del tempo trovai sempre più difficile, pur sbrigliando la mia immaginazione, inventare prove sufficienti a convincermi. Così l’incredulità s’insinuò lentamente nel mio spirito, e finì col diventare totale. Il suo sviluppo fu tanto lento che non ne soffersi, e da allora non ho mai più avuto alcun dubbio sull’esattezza della mia conclusione. In realtà non posso capire perché ci dovremmo augurare che le promesse del cristianesimo si avverino: perché in tal caso, secondo le parole del Vangelo, gli uomini senza fede, come mio padre, mio fratello e quasi tutti i miei amici più cari, sarebbero puniti per l’eternità.

E questa è un’odiosa dottrina [1].

Benché non abbia pensato molto all’esistenza di un Dio personale fino a un’età piuttosto avanzata, darò qui le conclusioni alquanto vaghe alle quali sono giunto. Oggi, dopo la scoperta della legge della selezione naturale, cade il vecchio argomento di un disegno nella natura secondo quanto scriveva Paley, argomento che nel passato mi era sembrato decisivo. Non si può più sostenere, per esempio, che la cerniera perfetta di una conchiglia bivalve debba essere stata ideata da un essere intelligente, come la cerniera della porta dall’uomo. Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale, non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento. Tutto ciò che esiste in natura è il risultato di leggi determinate. Ho già discusso di questo tema alla fine del mio libro sulla Variazione degli animali domestici e delle piante coltivate [Variation of Domestic Animal and Plants] e l’argomento che là ho portato non è mai stato controbattuto, ch’io sappia [2].

Anche prescindendo dagli infiniti e meravigliosi adattamenti che osserviamo di continuo, ci possiamo chiedere qual è la spiegazione dell’armonia e del buon fine di tutte le cose del mondo. Alcuni autori, profondamente colpiti dalle molte sofferenze che esistono nel mondo, si domandano se fra tutti gli esseri sensibili sia maggiore il dolore o la felicità, se il mondo nel suo complesso sia buono o cattivo. Io credo che la felicità  prevalga decisamente, benché sia molto difficile dimostrarlo. Se è vera, questa conclusione concorda con i risultati che si possono prevedere dalla selezione naturale. Se tutti gli individui di una specie soffrissero sempre molto intensamente, essi trascurerebbero la propagazione; ora non v’è ragione di credere che questo sia mai avvenuto con una certa frequenza. Inoltre, qualche altra considerazione può farci ritenere che in generale tutti gli esseri sensibili siano stati costruiti in modo da poter godere la felicità.

Chiunque creda, come me, che tutti gli organi fisici e psichici degli esseri viventi (a eccezione di quelli che non sono vantaggiosi né svantaggiosi per chi li possiede) si siano sviluppati attraverso la selezione naturale, e creda perciò nella sopravvivenza del più adatto, oltre che negli effetti dell’uso o dell’abitudine [3], dovrà ammettere anche che questi organi siano formati in modo che i loro possessori possano competere vittoriosamente con altri organismo, e di conseguenza, aumentare di numero. Ora un animale può seguire la direzione più utile alla specie sotto la spinta della sofferenza, come il dolore fisico, la fame, la sete e la paura, oppure sotto la spinta del piacere, come nel mangiare, del bere, nella riproduzione, ecc., o del piacere e del dolore insieme, come per esempio nella ricerca del cibo. Ma qualsiasi tipo di dolore o sofferenza, se molto prolungato, provoca uno stato di depressione e riduce la capacità di azione, pur mettendo un organismo nelle condizioni migliori per difendersi da un male grave o improvviso. Invece le sensazioni piacevoli possono protrarsi lungamente senza produrre alcun effetto deprimente, anzi stimolando tutto il sistema a una maggiore attività. Si arriva perciò a concludere che la maggior parte degli esseri viventi, se non tutti, si sono sviluppati per selezione naturale in modo tale che si valgono delle sensazioni piacevoli come loro guida abituale. Abbiamo un esempio in noi stessi, nel piacere che deriva dall’attività, talvolta anche da grandi fatiche fisiche e psichiche, nel piacere che deriva dai pasti quotidiani, e in particolare dalla vita sociale e dall’amore verso la famiglia. Non v’è dubbio che l’insieme di queste sensazioni di piacere, che sono abituali o ricorrono frequentemente, fa sì che per la maggior parte degli esseri sensibili la felicità prevalga sull’infelicità, anche se per alcuni le sofferenze possono essere talvolta assai gravi. Tali sofferenze sono assolutamente compatibili con la dottrina della selezione naturale, la quale non è perfetta nella sua mente, ma tende soltanto a dare a ogni specie il massimo delle possibilità di successo relativamente ad altre specie nella lotta per la vita, in condizioni mirabilmente complesse e mutevoli.

Nessuno può negare che nel mondo vi sia molta sofferenza. Molti hanno voluto spiegarla, per l’uomo, considerandola necessaria al suo perfezionamento morale. Ma il numero degli uomini è niente al confronto con tutti gli altri esseri dotati di sensibilità, i quali spesso soffrono molto, senza alcun perfezionamento morale. Per la nostra mente limitata un essere potente e sapiente come un Dio capace di creare l’universo, deve essere onnipotente e onnisciente; e sarebbe addirittura rivoltante per noi supporre che la sua benevolenza non sia anch’essa infinita; infatti quale potrebbe essere il vantaggio di far soffrire milioni di animali inferiori per un tempo praticamente illimitato? Questo antichissimo argomento che si vale del dolore per negare l’esistenza di una causa prima dotata d’intelletto, mi sembra molto valido; mentre, com’è stato giustamente notato, la presenza di tanto dolore concorda bene con l’opinione che tutti gli esseri viventi si siano sviluppati attraverso la variazione e la selezione naturale.

Oggi gli argomenti più comuni a favore dell’esistenza di un Dio intelligente sono tratti da profonde convinzioni personali e dai sentimenti provati dalla maggioranza delle persone. Ma è certo che gli indù, i maomettani e altri popoli di religioni diverse potrebbero, con ragionamenti analoghi e altrettanto validi, affermare l’esistenza di un Dio o di molti dèi, oppure, come i buddisti, l’inesistenza di Dio. Vi sono anche molte tribù di popoli barbari che non hanno la nostra stessa idea della divinità: esse credono negli spiriti o fantasmi e Tyler e Herbert e Spencer hanno dimostrato come si possa spiegare il sorgere di simili credenze.

In passato, sentimenti come quelli citati mi avevano portato a credere fermamente nell’esistenza di Dio e nell’immortalità dell’anima (benché non abbia mai avuto un sentimento religioso molto forte). A proposito delle impressioni che provai nella grandiosità della foresta brasiliana, scrissi nel mio diario: “Non è possibile dare un’idea adeguata dei sentimenti sublimi di meraviglia, ammirazione e devozione che s’impadroniscono del nostro spirito e lo elevano”. Ricordo bene la mia convinzione, che nell’uomo ci fosse qualcosa oltre la semplice vitalità corporea. Ma per me oggi non v’è più spettacolo, per quanto grandioso, che possa suscitare convinzioni e sentimenti simili. Si può obiettare che potrei essere paragonato a un uomo che fosse diventato cieco per i colori, il cui difetto non avrebbe alcun valore di prova, contro l’universale assicurazione da parte di tutti gli altri uomini dell’esistenza del rosso. Questo argomento potrebbe valere se tutti gli uomini, di tutte le razze, avessero la stessa intima convinzione dell’esistenza di Dio: ma sappiamo che ciò non è affatto vero. Perciò non riesco a capire come tali convinzioni intime e simili sentimenti possano avere il minimo valore di prova di ciò che esiste realmente. Le condizioni di spirito che un tempo le grandiose visioni naturali risvegliavano in me e che erano intimamente connesse con la fede in Dio, non differivano sostanzialmente da ciò che spesso si indica come sentimento del sublime; e ciò, nonostante sia difficile spiegarne la genesi, non può essere preso come prova dell’esistenza di Dio, più che non lo siano i sentimenti analoghi, forti, ma indefiniti, suscitati dalla musica.

Riguardo all’immortalità [4], mi sembra che nulla possa dimostrare la forza quasi istintiva di questa credenza, quanto l’opinione, oggi sostenuta dalla maggioranza dei fisici, che il sole e tutti i pianeti finiranno per diventare troppo freddi per mantenere la vita, a meno che un grosso corpo non vada a urtare contro il sole e a dargli così nuova vita. Per chi, come me, crede che in un lontano futuro l’uomo sarà una creatura molto più perfetta di quella che è oggi, è intollerabile pensare che esso, e insieme con lui tutti gli altri esseri sensibili, siano condannati all’annientamento completo dopo un così lungo e continuo progresso. Invece, per coloro che ammettono l’immortalità dell’anima, la distruzione del mondo non deve sembrare così terribile.

Un altro argomento a favore dell’esistenza di Dio, connesso con la ragione più che col sentimento, e a mio avviso molto importante, è l’estrema difficoltà, l’impossibilità quasi, di concepire l’universo, immenso e meraviglioso, e l’uomo, con la sua capacità di guardare verso il passato e verso il futuro, come il risultato di un mero caso o di una cieca necessità. Questo pensiero mi costringe a ricorrere a una Causa Prima dotata di un’intelligenza in certo modo analoga a quella dell’uomo; e mi merito così l’appellativo di teista.

Questa conclusione [5], a quanto ricordo, era ben radicata nella mia mente al tempo in cui scrissi l’Origine delle specie; ma in seguito, dopo molti alti e bassi, si è gradualmente indebolita. Ma allora nasce il dubbio: quale fiducia si può avere in queste alte concezioni che sono formulate dalla mente umana, la quale, secondo il mio fermo convincimento, si è sviluppata da una mente semplice, uguale a quella degli animali inferiori? Non può darsi che esse siano il risultato di un rapporto fra causa ed effetto, che ci appare indiscutibile, ma che forse è soltanto frutto di una scienza ereditata? Né si deve trascurare la probabilità che l’inculcare una fede religiosa nei bambini produca un effetto così forte, e forse ereditario, sulle loro menti ancora non completamente sviluppate, da rendere loro difficile liberarsi dalla fede in Dio, così come è difficile per una scimmia liberarsi dalla paura e dall’odio che nutre istintivamente per il serpente [6].

Non è mia pretesa far luce su questi astrusi problemi. Il mistero del principio dell’universo è insolubile per noi, e perciò, per quel che mi riguarda, mi limito a dichiararmi agnostico.

Mi sembra che per un uomo che non abbia la costante certezza dell’esistenza di un Dio personificato o di una vita futura con relativa ricompensa, l’unica regola della vita debba essere quella di seguire gli istinti e gli impulsi più forti o che gli appaiono migliori. Allo stesso modo, ma inconsciamente, agisce un cane. D’altra parte l’uomo considera passato e futuro e confronta i suoi vari sentimenti, desideri e ricordi; e trova poi, d’accordo con il parere di tutti i più saggi, che la massima soddisfazione deriva dal seguire ceti impulsi e precisamente gli istinti sociali. Se agisce per il bene altrui riceve l’approvazione degli altri uomini e conquista l’amore delle persone con cui vive, cioè la cosa più piacevole che vi sia sulla terra. A poco a poco troverà insopportabile obbedire alle passioni dei sensi piuttosto che agli impulsi superiori, che quando diventano abituali possono quasi essere chiamati istinti. Talvolta la ragione gli suggerirà di agire contro l’opinione altrui; non riceverà allora segni di approvazione, ma avrà la sicurezza e la soddisfazione di aver seguito la sua guida più profonda, cioè la coscienza. Quanto a me, credo di aver agito rettamente seguendo con fermezza la mia strada e dedicando la mia vita alla scienza. Non ho commesso nessuna colpa grave e perciò non ho rimorsi, ma molto spesso ho il rimpianto di non aver fatto di più per il bene degli altri. L’unica mia scusante, anche se insufficiente, sta nella salute malferma e nella mia costituzione mentale, che mi rende estremamente difficile passare da un argomento a un altro,  da un’occupazione a una diversa. Posso immaginare che avrei dedicato con gran piacere tutto il mio tempo alla filantropia, ma non avrei mai potuto dedicarvi solo una parte di esso, anche se questa sarebbe stata la miglior linea di condotta.

 

[N.B.] = Nora Barlow

[F.D.] = Francis Darwin

[1] La signora Darwin ha annotato di suo pugno questo passo (dalle parole “da allora non ho mai più avuto alcun dubbio”… a “odiosa dottrina”). Essa scrive:”Non vorrei che si pubblicasse il passo compreso fra le parentesi, che mi sembra troppo crudo. La dottrina della punizione eterna per i miscredenti merita il giudizio più severo, ma ben pochi, oggi, potrebbero identificarla con il “cristianesimo” (anche se le parole sono esplicite). Qui interviene anche la questione della ispirazione del verbo. E.D.” (ottobre 1882). Questo fu scritto sei mesi dopo la morte del marito, in una seconda copia della Autobiografia scritta a mano da Francis. Il passo non fu pubblicato [N.B.].

[2] Mio padre si chiede: “Dobbiamo forse credere che nelle rocce esistano già formati i pezzi che l’uomo mette insieme per costruire la casa? E perché allora dovremmo credere che le variazioni degli animali domestici e delle piante coltivate siano predisposti per comodità dell’allevatore? Ma se rinunciamo a questo principio in un caso, non vi è ombra di motivo per credere in una guida e direttiva speciale delle variazioni che si presentano in natura e del risultato delle stesse leggi generali, ossia per credere che vi sia stato un principio fondamentale che, attraverso la selezione naturale, abbia condotto fino alla formazione degli animali più perfettamente adattati del mondo, uomo compreso” (Variazioni degli animali e delle piante, 1ª ed., vol. II, p. 431) [F.D.].

[3] La frase “oltre che negli effetti dell’uso o dell’abitudine” fu aggiunta più tardi. Le numerose correzioni e modifiche apportate a questa frase dimostrano che Charles Darwin pensava sempre più al possibile intervento di altre forze oltre la selezione naturale [N.B.].

[4] Aggiunta fatta in seguito alla fine del paragrafo [N.B.].

[5] Questi quattro righi furono aggiunti più tardi. Nella copia manoscritta di Charles l’aggiunta interfogliata è di pugno del figlio maggiore. Nella copia di Francis è stata fatta dallo stesso Charles [N.B.].

[6] Aggiunta posteriore. Emma Darwin scrisse a Frank per chiedergli di omettere questa frase nella edizione del 1885 dell’Autobiografia. Ecco il testo della lettera:

“Mio caro Frank, nell’Autobiografia c’è una frase ch’io desidererei vivamente che fosse soppressa, sia perché l’opinione di tuo padre che tuttala moralità si sia sviluppata per evoluzione mi è indubbiamente sgradita, sia anche perché quando si arriva a questa punto si rimane scossi in quanto la frase in questione può far credere, ingiustamente, che tuo padre considerasse tutte le fedi religiose alla stessa stregua delle avversione o delle simpatie ereditarie, come la paura delle scimmie per i serpenti. Credo che il tono irriverente scomparirebbe se la prima parte delle supposizioni si interrompesse prima dell’esempio delle scimmie e dei serpenti. Mi sembra che questa omissione non altererebbe il senso dell’Autobiografia e penso perciò che non sia necessario che ti chieda il parere di William. Desidererei, se fosse possibile, non dare un dolore a quegli amici religiosi di tuo padre, i quali hanno conservato una sincera affezione per lui e che immagino sarebbero profondamente colpiti da quella frase, perfino quelli liberali come Ellen Tollett e Laura e ancora più l’ammiraglio Sullivan, la zia Caroline, ecc., non esclusi i vecchi domestici. La tua, caro Frank, E.D.”

Questa lettera è pubblicata nel libro su Emma Darwin di Henrietta Litchfield nella edizione privata stampata dalla Cambridge University Press nel 1904. fu omessa nella edizione pubblicata da John Murray nel 1915 [N.B.].

    

Fonte: C.R. Darwin, Autobiografia 1809-1882. Con l’aggiunta dei passi omessi nelle precedenti edizioni, Appendice e Note a cura della nipote Nora Barlow, pref. di Giuseppe Montalenti, tr. it. di Luciana Fratini, Einaudi, Torino 1964, pp. 67-77.