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L’arco sulle nubi: la simbologia dell’arcobaleno nella Bibbia

Filippo Serafini
docente di Sacra Scrittura, Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare, Roma
2015

L’apparire dell’arcobaleno sulle nubi, quasi sempre dopo un’intensa pioggia, ha evocato fin dalle origini della cultura umana emozioni di stupore ma anche sentimenti di natura religiosa. Non sorprende, pertanto, che anche la sacra Scrittura ospiti brani ed episodi in relazione a questo fenomeno della bassa atmosfera.

Il brano biblico più famoso in cui si fa riferimento all’arcobaleno è il capitolo 9 del libro della Genesi, a conclusione della narrazione del diluvio. A partire dal v. 8 si descrive la stipulazione di un’alleanza tra Dio, da una parte, e Noè, i suoi figli, i loro discendenti (quindi l’umanità intera nella prospettiva del racconto biblico) e tutti gli animali, dall’altra: «Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne (cioè ogni essere vivente, uomo o animale) dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra» (Gen 9,11). Nei successivi vv. 12-16 si insiste sul «segno» di quest’alleanza che è l’«arco sulle nubi», ovvero l’arcobaleno.

Gli studiosi sono concordi nel ritenere che la redazione del brano di Gen 9 vada fatta risalire all’autore (o scuola) convenzionalmente chiamato “Sacerdotale”, da collocare all’epoca dell’esilio babilonese, nel VI sec. a.C.; inoltre considerano assai probabile che la sua descrizione dell’arcobaleno come «segno dell’alleanza» riprenda tradizioni o racconti o convinzioni popolari al riguardo. Nella spiegazione di tale sfondo, però, i commentatori si dividono. Alcuni prendono spunto dal fatto che in Gen 9,13.14.16 si parla sempre di «arco», usando nel testo ebraico il sostantivo qešet che di solito indica un’arma, e ritengono che il retroterra sia l’immagine di un Dio guerriero (la metafora del Signore che impugna l’arco si trova in alcuni passi dell’Antico Testamento, cfr. Sal 7,13-14; Lam 2,4; 3,12; Ab 3,9). In questo caso l’arcobaleno sarebbe appunto l’arma divina, che viene deposta per non essere più impugnata (da qui l’idea dell’arcobaleno come simbolo di pace), segnando la fine dell’intervento punitivo di Dio. Altri studiosi, invece, ritengono che lo sfondo del testo sia più semplicemente una spiegazione del fenomeno naturale dell’arcobaleno che lo faceva risalire, già in epoca antica, all’intervento di una divinità al termine del diluvio, senza alcun riferimento militare (la specificazione «sulle nubi» servirebbe proprio per segnalare la differenza fra l’arcobaleno e l’arma da caccia o da guerra).

In ogni caso l’autore biblico insiste piuttosto sulla sua funzione di «segno» ed è interessante notare che ciò valga soprattutto per Dio «Quando ammasserò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e ogni essere che vive in ogni carne, e non ci saranno più le acque per il diluvio, per distruggere ogni carne. L’arco sarà sulle nubi, e io lo guarderò per ricordare l'alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne che è sulla terra». Questo va rilevato perché gli altri due passi in cui si fa riferimento a un «segno» dell’alleanza» (Gen 17,11, dove si tratta della circoncisione, e Es 31,16-17, dove si tratta del sabato) esso vale per la controparte umana. L’uso di Gen 9 è del tutto peculiare, perché è Dio stesso che, con un antropomorfismo evidente e forse anche un po’ ingenuo ai nostri occhi, ha bisogno di un segno per ricordare i suoi impegni. Lo scopo è quello di sottolineare l’azione divina in favore della creazione e la situazione di dipendenza della vita di uomini e animali dalla sua provvidenza. In altri termini, come nel racconto di creazione di Gen 1, con cui Gen 9 ha alcuni collegamenti letterari e tematici, si ribadisce che l’esistenza della terra, come luogo in cui è possibile la vita, non può essere pensata separandola dalla volontà divina; d’altra parte si afferma che la strutturale fragilità di uomini e animali, manifestata in modo drammatico dalle calamità naturali simboleggiate dal diluvio, viene custodita dalla stessa volontà. Da questo punto di vista la funzione dell’arcobaleno è anche di rassicurazione: Dio non dimentica di prendersi cura della sue creature.

Questo aspetto va approfondito tenendo conto che all’inizio del diluvio il narratore biblico pone il peccato (Gen 6,5 «Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre»). La promessa di Gen 9, quindi, vale come custodia della vita anche rispetto alle potenzialità distruttive che scaturiscono dalle scelte di male compiute dagli esseri umani. Va d’altra parte ricordato che i due aspetti, che la nostra mentalità moderna tiene ben separati, distinguendo le catastrofi che derivano dall’agire e dalla responsabilità umana da quelle che invece sono frutto di fenomeni naturali imprevedibili e incontrollabili, si potevano intrecciare più facilmente nella mentalità antica che traspare nell’Antico Testamento, per la quale il male commesso dagli uomini ha spesso un riflesso anche nell’ordine della natura (d’altra parte, la sensibilità ambientalista e l’attenzione ai cambiamenti climatici negli ultimi anni ha riportato l’attenzione sul legame fra comportamenti umani e calamità naturali). Così se è anzitutto il peccato umano che provoca l’intervento distruttivo divino mediante il diluvio, che coinvolge anche gli animali, l’alleanza che Dio stipula alla fine di esso riguarda ogni forma di vita perché essa mira a superare l’inclinazione al male presente nel cuore dell’uomo e i suoi effetti negativi (cfr Gen 8,21). Mediante la struttura simbolica del racconto si giunge quindi ad affermare che la visione essenzialmente positiva del mondo, tipica dell’Antico Testamento, non può essere messa in discussione né dalle catastrofi naturali né dall’agire malvagio degli esseri umani; questo perché in ogni caso il creato manifesta la volontà divina di custodire e favorire la vita.

Di tutto questo è segno l’arcobaleno forse proprio perché le condizioni atmosferiche che lo rendono possibile si presentano solo in determinate occasioni, quando la forza distruttiva della tempesta lascia spazio anche ai raggi del sole.

Tale aspetto eccezionale e sorprendente dell’arcobaleno, e il fascino dei suoi colori, spiegano perché in altri passi dell’Antico Testamento esso sia associato allo «splendore» e, in quanto tale, divenga un’immagine della «gloria» divina. Nella visione inaugurale del libro di Ezechiele il profeta ha la percezione di una «figura dalle sembianze umane» (1,26) che dai «suoi fianchi in su mi apparve splendido come metallo incandescente e, dai suoi fianchi in giù, mi apparve come di fuoco. Era circondato da un splendore simile a quello dell’arcobaleno fra le nubi di un giorno di pioggia. Così percepii la visione della gloria del Signore» (1,27-28). È difficile dire se questa rappresentazione del divino voglia in qualche modo richiamare il testo di Gen 9: da una parte, il contesto e la funzione riconosciuta all’arcobaleno sono molto diversi e indirizzerebbero a una risposta negativa; dall’altra la scarsità di riferimenti all’arcobaleno nell’Antico Testamento e i legami letterari ampiamente attestati fra il libro di Ezechiele e i testi “Sacerdotali” del Pentateuco spingerebbero a una risposta positiva. Se si segue quest’ultima ipotesi, si deve ritenere che Ezechiele voglia richiamare implicitamente, all’inizio del suo libro, l’impegno solenne di Dio in favore del mondo e dei viventi che lo popolano. Così, gli oracoli di condanna e di minaccia che dominano la prima parte del suo libro riceverebbero una precisa chiave di lettura: il Signore che interviene a punire il suo popolo infedele (cfr. Ez 4-24) e le nazioni straniere (cfr. Ez 25-32) ha di mira, anche in questa sua azione apparentemente distruttiva, la salvezza e la custodia dei viventi.

Allo splendore dell’arcobaleno fanno riferimento anche due passi del libro del Siracide o Ecclesiastico (libro che fa parte dell’Antico Testamento nella Bibbia cattolica, ma che non si trova nella Bibbia ebraica). Il primo è collocato nel contesto di un inno (42,15–43,33) che magnifica le opere create allo scopo di stimolare la lode al creatore e il riconoscimento della grandezza (per certi versi impenetrabile dalla sapienza umana) della sua opera. La menzione dell’arcobaleno si trova ai vv. 11-12 dopo il riferimento agli elementi celesti (firmamento, sole, luna e stelle) e prima di quelli meteorologici (vento, tempesta, neve, brina, tramontana, ghiaccio, arsura, rugiada): forse la posizione non è casuale ma riflette una certa comprensione dell’arcobaleno, che da una parte si colloca nel cielo, come gli astri, dall’altra è legato al verificarsi di determinati fenomeni meteorologici. In ogni caso l’accento va sulla lode e sul riconoscimento dell’opera divina: «Osserva l’arcobaleno e benedici colui che lo ha fatto: quanto è bello nel suo splendore! Avvolge il cielo con un cerchio di gloria, lo hanno teso le mani dell'Altissimo». Si può accostare questo passo a quello del libro di Ezechiele non soltanto perché entrambi fanno riferimento allo «splendore» e alla «gloria», ma anche perché entrambi richiamano l’idea di una manifestazione divina: nella forma di una visione il passo profetico, nella mediazione dell’opere create quello sapienziale. D’altra parte, rispetto a Gen 9, dove l’arcobaleno era un segno per Dio, il Siracide ha un punto di vista complementare: per lui, infatti, è un segno per l’uomo.

In Sir 50,7 l’arcobaleno ritorna per descrivere non la «gloria» divina, ma quella del sommo sacerdote Simone durante la celebrazione del culto nel tempio di Gerusalemme: «Com’era glorioso quando si affacciava dal tempio, quando usciva dal santuario dietro il velo! Come astro mattutino in mezzo alle nubi, come la luna nei giorni in cui è piena, come sole sfolgorante sul tempio dell’Altissimo, come arcobaleno splendente fra nubi di gloria» (Sir 50,5-7). Lo splendore della liturgia, così esaltata dal Siracide, rimanda all’efficacia del culto e della mediazione sacerdotale per mantenere vivo il legame fra Dio e il suo popolo. In questo senso c’è un’analogia con Sir 43,11-12: come lo splendore del creato invita al riconoscimento della grandezza del Creatore, lo splendore del culto invita a riconoscere la grandezza di ciò che il Signore ha fatto per Israele.

Nel Nuovo Testamento il brano del c. 1 di Ezechiele sta sullo sfondo della visione che inaugura la seconda parte del libro dell’Apocalisse (4,1-11): in essa al veggente (Giovanni) è concesso di accedere (cfr. vv. 1-2) alla sala del trono di Dio in cielo: qui egli ha la visione di «uno seduto» sul trono (a differenza di Ezechiele, l’autore neotestamentario non azzarda una similitudine per la sua figura) con «un arcobaleno simile nell’aspetto a smeraldo» che «avvolgeva il trono» (v. 3). Nel prosieguo della visione si descrive (riprendendo alcuni elementi di Is 6) una liturgia celeste: nell’insieme lo scopo del brano è chiaramente quello di fondare il messaggio che si trova nel libro, indicando che Giovanni è un profeta cui vengono rivelati i disegni divini.

Anche la menzione dell’arcobaleno in Ap 10,1 serve a caratterizzare l’essere che ne è circondato come appartenente alla sfera divina: «E vidi un altro angelo, possente, discendere dal cielo, avvolto in una nube; l’arcobaleno era sul suo capo e il suo volto era come il sole e le sue gambe come colonne di fuoco». Quasi tutto in questo versetto rimanda al linguaggio delle apparizioni divine: diversi passi del Pentateuco descrivono il Signore che «discende nella nube» (cfr. Es 34,5; Nm 11,25; 12,5; anche Dt 31,15 nella versione greca dei Settanta) e la «colonna di fuoco» guidava il cammino di Israele nel deserto (Es 13,21.22; 14,24; Nm 14,14; cfr. Ne 9,12.19). L’angelo tiene in mano un «piccolo libro» (10,2) che il veggente deve ingoiare (10,8-10) per continuare a profetizzare (v. 11). In questo senso il contesto riprende quello del c. 4: l’apparizione della figura celeste legittima Giovanni a una nuova fase della su profezia.

Va notato che mentre l’antica versione greca dei Settanta (III-II sec. a.C.), nel tradurre i passi dell’Antico Testamento che fanno riferimento all’arcobaleno usa il greco toxón, «arco», corrispondente all’ebraico qešet, l’autore dell’Apocalisse usa il termine proprio della lingua greca, ovvero îris, forse perché meno equivoco per i suoi lettori. Così risulta più difficile fare un collegamento fra questi passi dell’Apocalisse e il brano di Gen 9, anche se alcuni autori hanno voluto comunque scorgerlo. In tal caso il senso sarebbe simile a quella che si individua per il libro di Ezechiele: sebbene diversi passi dell’Apocalisse si presentino come annuncio di un giudizio, in realtà il Dio che si manifesta in esso è sempre colui che si preoccupa anzitutto della salvezza e della vita delle sue creature.

A conclusione di questo breve percorso si può sottolineare, al di là delle diverse interpretazioni possibili, il valore certamente positivo dell’arcobaleno nella Bibbia: esso rimanda alla manifestazione di un Dio che non teme di affrontare gli aspetti negativi della realtà e del cuore dell’uomo, prendendosi continuamente cura della sue creature cui dona la vita.