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Diari

Søren Kierkegaard
a cura di A. Giannatiempo Quinzio e G. Carrera
Morcelliana, Brescia 2010-2017
ISBN:
9788837223458

Kierkegaard “anti-filosofo”

Tra il 1992 e il 1996 il filosofo francese Alain Badiou, durante dei seminari presso l’École normale supérieure, introduceva nel lessico e nell’ermeneutica filosofica la categoria di “antifilosofia”. Cosa egli intendesse con questo epiteto si può descrivere attraverso le seguenti «operazioni congiunte»[i]:

1. L’antifilosofia è «una critica linguistica, logica, genealogica, degli enunciati della filosofia. Una destituzione della categoria di verità. Uno smantellamento delle pretese della filosofia di costituirsi in teoria».

2. È il «riconoscimento della non riducibilità della filosofia, in ultima istanza, alla sua apparenza discorsiva, alle sue proposizioni, alla sua fallace apparenza teorica. La filosofia è un atto e le sue affabulazioni circa la “verità” sono l’abito, la propaganda, la menzogna».

3. Essa di fatto invoca «un altro atto radicalmente nuovo che verrà detto sia, in modo equivoco, filosofico, sia, più onestamente, sopra-filosofico e perfino a-filosofico. Questo atto inaudito distrugge l’atto filosofico chiarendo allo stesso tempo la sua nocività. Lo supera affermativamente».

4. «Le condizioni della filosofia, cioè le verità di cui essa dà testimonianza, sono sempre contemporanee; […] un filosofo è un militante politico, generalmente odiato dai poteri vigenti e dai loro servitori; un esteta, che va incontro alle creazioni più improbabili; un amante, la cui vita sa capovolgersi per un uomo o per una donna; uno studioso, che frequenta gli sviluppi più violentemente paradossali delle scienze. E che è in questa effervescenza, in questa in-disposizione, in questa ribellione, che egli produce le sue cattedrali di idee».

5. «Il filosofo assume la voce del Maestro […] La sua parola è autoritaria, tanto seducente quanto violenta, ed impegna a una sequela, turba e converte. Il filosofo è presente, in quanto tale, in ciò che enuncia, egli non si sottrae, anche se questa presenza è quella di una sottomissione esemplare al dovere della ragione».

6. L’antifilosofia esige che sia costantemente esibito l’antifilosofo come singolarità esistenziale: la «pulsione biografica [i Diari, le Carte…], il gusto per la confessione e anche alla fine una sorta di infatuazione del tutto riconoscibile […] impone lo stile “letterario” degli antifilosofi».

7. Vi è una «connessione tra cristianesimo e antifilosofia […] Si può facilmente stilare la lista degli antifilosofi di grosso calibro: Pascal, Rousseau, Kierkegaard, Nietzsche, Wittgenstein, Lacan», e Paolo di Tarso.

Che il titolo di “antifilosofo” sia proprio di Nietzsche (seminario del 1992-1993), di Wittgenstein (seminario 1993-1994) di Lacan (seminario 1994-1995) e san Paolo (seminario 1995-1996), lo lasciamo dire e mostrare a Badiou stesso. Che sia vero di Kierkegaard, lo lasciamo verificare a quanti con passione si sprofonderanno nella interminabile lettura dei Diari dello scrittore danese, che in tutto e per tutto sembra ergersi nel panorama del pensiero occidentale come l’anti-filosofo per eccellenza – rispetto ai sette punti del francese, e anche ben oltre.

I Diari ne sono una testimonianza suprema: raccolgono la vicenda umana ed intellettuale di una singolarità cristiana destituente un certo modo di fare filosofia (un anti-filosofo lo è sempre di un qualche filosofo: Kierkegaard di Hegel) volta all’universale piuttosto che al singolare, al sistema piuttosto che all’esistenza, all’ideale piuttosto che al reale, alla ragione piuttosto che al paradosso, alla necessità piuttosto che alla possibilità. Kierkegaard è stato un “novello Socrate” in polemica con la sua contemporaneità («L’umorista, come il predatore, va sempre solo» 13 gennaio 1838 II A 694): contro un modo cattedratico, astratto e generale di insegnare una presunta “verità oggettiva” senza scegliersi per essa, senza testimoniare di essa con la propria esistenza, fino a morirne. Perché «la verità è la stessa soggettività»[ii], è la coincidenza di essere quel che si dice, sul modello dell’uomo-Dio, che ha portato nel mondo la salvezza dall’angoscia, la salvezza nell’istante stesso in cui l’uomo, scegliendo infinitamente l’assoluto e non se stesso, ritrova se stesso come esistente.

La contemporaneità non capisce l’anti-filosofo danese:

La mia parola di congedo in punto di morte: «lasciatemi vedere, miei contemporanei, adornare il mio sepolcro e dire: se noi fossimo vissuti contemporaneamente a lui, egli non sarebbe stato trattato in quel modo!». 1847      VIII1 A 139

Mentre i pastori d’anime, i letterati, i poeti, i filosofi… hanno perso la strada, sono infarciti di retorica, pensano al potere e ai lustri del pensare oggettivo, egli incarna in modo emblematico il tratto paradossale dell’anti-filosofo: dentro la posa dell’uomo dimesso e angosciato, dello scrittore solitario, del tipo psicologico asociale e repellente la vanità del mondo, di colui che scrive solo delle “briciole” di filosofia, che non è un insegnante, non è un poeta, non è un filosofo, non è un pastore… ha l’ardire di porsi, attraverso i suoi scritti, come il filosofo, il maestro, la guida per eccellenza, pur senza dirlo mai apertamente, ma lasciandolo intendere. 

…i miei motti di spirito sono “ricercati”, come alcuni dicono; ora di questo non li si può incolpare, perché sono delle sciocchezze. 8 agosto 1839, II A 533

Egli fu un esteta, un amante, uno scrittore, un predicatore, che ha imposto la sua singolare veemenza in ogni pagina della sua opera, come a riscatto di un dolore interiore inenarrabile che egli ha convertito in missione personale, in «vendetta nei confronti del mondo» (II A 649), a favore del dolore degli altri. Eppure:

Dopo la mia morte, nessuno troverà nelle mie carte (questa è la mia consolazione) una sola spiegazione di ciò che in verità ha riempito la mia vita; non troverà nella mia intimità lo scritto che spiega tutto e spesso, di ciò che il mondo chiama bagattelle, fa degli avvenimenti di enorme importanza per me e che anch’io considero futili appena tolgo quella nota segreta che ne è la spiegazione. II A 85

  

Biografia di “quel Singolo”

Se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che “quel Singolo” – anche se ora questa categoria non è capita. Lo sarà in seguito. Con questa categoria “il Singolo”, quando qui tutto era sistema su sistema, io presi polemicamente di mira il sistema: ora di sistema non si parla più. A questa categoria è legata assolutamente la mia possibile importanza storica. I miei scritti saranno forse presto dimenticati, come quelli di molti altri scrittori. Ma se questa categoria era giusta, se questa categoria era al posto giusto, se io qui ho colpito nel segno, se ho capito bene che questo era il mio compito, tutt’altro che piacevole o compiacente o incoraggiante, se mi sarà concesso questo, anche se con sofferenze interiori, come raramente se ne vivono, anche se con sacrifici esteriori che non tutti i giorni c’è un uomo disposto a fare: allora io rimango e i miei scritti con me. 1847   VIII1 A 482

La straripante soggettività che emerge dall’opera di un autore come Kierkegaard, non è legata tanto ai fatti della sua vita, a vicende memorabili che hanno segnato il corso di essa e del contesto a lui contemporaneo – non è in questo una vita invidiabile perché straordinaria, tutt’altro - quanto al modo di proporla, alla forza con cui dice “io” e parla dell’ “io”, alla veemenza con cui vuole condurre ad una scelta per se stessi, per la proprio singolarità, per il proprio stato di vita, per l’assolutezza della non derogabilità a stare «davanti a Dio» come un singolo, che nella rinuncia infinita a se stesso trova se stesso, sintesi di finito e infinito.

La cronologia in senso stretto, è nota. Il 5 maggio 1813 nasce a Copenaghen, da genitori adulti, ultimo di sette figli. A 18 anni si iscrive all’Università di Copenaghen, facoltà di Teologia, spinto dal padre a diventare pastore. Vive sostanzialmente senza spostarsi mai dalla capitale danese, a parte alcuni viaggi sporadici, tra cui Berlino, dove assiste a delle lezioni di Schelling. Riceverà il grado di Magister artium solo nel 1841, con la dissertazione: Sul concetto di ironia in riferimento a Socrate, che però non è la sua prima opera (aveva pubblicato un articolo sulle donne (1834) e un libretto anonimo dal titolo: Dalle carte di uno ancora in vita, 1838). Subisce la morte della madre nel 1834 e del padre nel 1838, come quella di un amico importante e suo professore di filosofia, Poul Møller. Dedicherà tutta la sua vita alla scrittura, come testimonia l’immensa mole di opere da lui pubblicata, e avrà un rapporto travagliato con la rivista Il Corsaro, tra la fine del 1845 e il 1846, che lo aveva preso di mira. Nel 1840 si era iscritto ad un Seminario pastorale per diventare un omileta. Altro lutto cruciale sarà la morte del vescovo Mynster, nel 1854, che segna l’inizio dell’ultima fase della sua vita. Morirà  l’11 novembre 1855, a 42 anni, dopo aver detto, qualche giorno prima ad un amico: «salutami tutti gli uomini. Io li ho molto amati e di’ loro che la mia vita è stata una grande sofferenza, sconosciuta agli altri e incomprensibile. Tutto aveva l’apparenza di orgoglio e vanità, ma non era vero. Io non sono affatto migliore degli altri, come sempre ho detto. Avevo il mio pungolo nella carne: fu per questo che non mi sposai, né presi un impiego, benché fossi laureato in teologia […] Invece divenni l’eccezione. […] Chiedo a Dio che mi scampi dalla disperazione nell’ora della morte. Spesso mi viene in mente il versetto che dice: “Sia bene accetta a Dio la mia morte”»[iii].

Tra le righe di una cronologia di vita monotona, spiccano, tra le tante, tre figure fondamentali che costituiscono i punti di riferimenti cruciali della sua vita e, a fortiori, della sua attività di scrittore: il padre, Regina Olsen e il vescovo Mynster. Il padre Michael Pedersen (1756-1838), era un ricco commerciante molto religioso, devoto, severo e tormentato. Da lui assorbe una clima pietistico forte e angosciante.

A mio padre devo tutto fin da principio. La preghiera che mi fece, quando malconcio com’egli era, vide me malconcio: vedi di poter amare davvero Gesù Cristo. 1848      IX A 68 

La morte di mio padre fu per me allora un evento terribile che mi scosse e di cui non ho mai detto alcunché con un solo uomo. Il proscenio di tutta la mia vita è oltremodo avvolto nella più tetra malinconia e nelle nebbie dell’estrema struggente miseria, che non c’è nessuna meraviglia se io ero quel che ero. Ma tutto questo resta un mio segreto. In altri forse ciò non avrebbe fatto un’impressione così profonda; ma alla mia fantasia sì e specialmente nei primi tempi, quando essa non aveva ancora alcun compito a cui rivolgersi. Una tale malinconia congenita, una così immensa dote di dolore e nel senso più profondo la tristezza, quella di un bambino educato da un vegliardo malinconico e poi con una virtuosità innata per poter ingannare chiunque, dal momento che io ero brio e allegria – e che poi Dio nei cieli mi abbia aiutato così. 1848      IX A 70

Nel 1837 Kierkegaard conosce la quattordicenne Regina Olsen, figlia minore del Consigliere di Giustizia, con la quale si fidanza nel 1840, per poi rompere il fidanzamento appena un anno dopo, attribuendosi ogni responsabilità del fatto.

Se avessi avuto la fede sarei rimasto con Regina. Ora l’ho compreso, siano rese lodi e grazie a Dio. In questi giorni stavo quasi per perdere il senno. Umanamente parlando io ho avuto ragione con lei. Forse non avrei dovuto mai fidanzarmi, ma, a partire da quel momento, io ho agito con lei in perfetta onestà. Dal punto di vista estetico e cavalleresco, io l’ho amata molto più di quanto essa abbia amato me; altrimenti non si sarebbe messa a fare la superba con me, né mi avrebbe angosciato con i suoi strilli. Io ho cominciato a scrivere ora un racconto dal titolo “Reo-non reo”: naturalmente conterrà delle cose che possono far strabiliare il mondo, perché in un anno e ½  io ho vissuto in me stesso tanta poesia, quanta non ne contengono tutti i romanzi uniti insieme; ma io non posso né voglio che la nostra relazione svapori in poesia; essa ha tutt’altra realtà. Dopotutto non è diventata una principessa da teatro e, se sarà possibile, potrà ancora diventare mia moglie. Signore Dio! Era ben questo il mio unico desiderio, e tuttavia ho dovuto rinunziarvi. E qui, umanamente parlando, io avevo completamente ragione e con lei mi sono comportato da perfetto gentiluomo, evitando di farle sospettare il mio dolore. A non voler guardare la cosa che dal lato estetico, io sono stato un grand’uomo; posso lodarmi d’aver fatto quello che ben pochi avrebbero fatto al mio posto; poiché, se non avessi pensato tanto al suo bene, avrei potuto prendermela quando essa stessa me ne supplicava (ciò che essa certamente non avrebbe dovuto fare; era un’arma fasulla), quando suo padre me ne pregava, le avrei fatto un piacere e nello stesso tempo avrei adempiuto il mio desiderio, e se più tardi ella si fosse stancata, avrei sempre potuto rinfacciarle che era stata lei stessa a volerlo. Non l’ho fatto. Dio mi è testimonio che era questo l’unico mio desiderio: Dio mi è testimonio di quanto io abbia sorvegliato me stesso perché nessun oblio cancellasse il suo ricordo. 17 maggio 1843    IV A 107

Jakob Peter Mynster (1775-1854) fu vescovo e capo della Chiesa danese, predicatore di fama e già direttore spirituale del padre di Kierkegaard. Fu per il filosofo un interlocutore di dottrina, un ambivalente figura di ammirazione e scontro, un omileta e un uomo di governo al contempo.

Io sono stato educato con le prediche di Mynster – da mio padre. Qui sta il nocciolo, perché a mio padre non poteva passare naturalmente per la mente che queste prediche non andassero prese alla lettera. Educato dalle prediche di Mynster, già: questo sì che è un problema!  1847      VIII1 A 397

L’unico uomo del mio tempo al quale abbia prestato attenzione è Mynster. Ma Mynster si preoccupa solo di stare al governo, persuaso di essere nella verità, della verità poco si preoccupa, anche se essa fosse malmenata sotto i suoi occhi. Può capire soltanto che la verità deve e dovrà governare, che essa per forza deve e dovrà soffrire, questo sorpassa la sua comprensione.  1847      VIII1 A 414

 

I “Diari”: edizioni e struttura

Kierkegaard inizia a scrivere il suo Diario (Journal) il 15 aprile del 1834 appuntando:

Per distinguere una luce ne occorre precisamente sempre un’altra. Perché immaginiamoci completamente al buio e ora appare un punto di luce, allora non è assolutamente possibile discernere che cosa esso sia, perché al buio non si può determinare nessun rapporto di spazio. Soltanto quando sopraggiunge un’altra luce, si potrà precisare il primo punto rispetto al secondo. 15 aprile 1834    I A 1

Da questo momento, non si ferma più. Le Carte (Papirer) lo accompagneranno per tutta la vita: appunti, note, taccuini… di cui i Diari (Journaler) ne costituiscono propriamente solo una parte [iv]. Egli stesso aveva intrapreso una catalogazione dei suoi manoscritti, probabilmente in vista di una pubblicazione dal titolo: Il libro del giudice.

La prima edizione danese a cura di H. P. Bafod fu del 1869-1881, intitolata Søren Kierkegaards Efterladte Papirer [Carte postume di Søren Kierkegaard], edita da Reitzels Forlag, København, mentre l’edizione cui fa riferimento la traduzione italiana è la ristampa di Søren Kierkegaards Papirer [Carte di Søren Kierkegaard] a cura di P. A. Heiberg, V. Kuhr, E. Torsting del 1909-1948, in 11 volumi e per un totale di 20 tomi, edita da Gyldendal, København, ulteriormente estesa, nel 1975-1978 fin a 16 volumi, con indici e apparati.

È su questa edizione che si basa la monumentale opera di traduzione in italiano da parte di p. Cornelio Fabro (1911-1995) del Diario, uscita in tre edizioni di volta in volta rivedute e aggiornate, prima nel 1958-1961, Morcelliana, Brescia; poi nel 1962-1963, e infine nel 1980-1983, sempre per Morcelliana, Brescia, in 12 volumi.

Monumentale non solo per la sconfinata mole degli scritti da tradurre (padre Fabro ha tradotto e curato anche una edizione delle Opere [v]) ma anche per la lingua di Kierkegaard che è tra le più complesse e disarmanti, anche per i lettori danesi, a causa della gamma degli incisi, delle innovazioni stilistiche e sintattiche, delle allusioni sacre e profane di cui il testo è tutto irto: uno stile che non ha l’eguale poiché sa passare nella stessa opera, anzi nello stesso contesto, dall’impeto spumeggiante all’esposizione trattatistica più controllata, dalle divagazioni e immagini più vaporose e evanescenti di rapimento estetico alle formule rapide e severe della verità che non muta. Di qui l’intreccio di proposizioni coordinate e subordinate che plasma le parole con la dialettica del pensiero e veste l’ardito volo con le audacie di un periodare che esalta la fantasia ma che spesso trascina il lettore in un labirinto e gli mozza il fiato travolgendo anche l’attenzione più impegnata [vi].

È ora in commercio una quarta edizione aggiornata e ampliata dei Diari (edizione parziale, come si vede dalla datazione dei volumi, e ci auguriamo il progetto editoriale continui), sempre per conto di Morcelliana, Brescia 2010-2017: sono usciti i volumi I (1834-1842), II (1842-1847) e III (1847-1848), a cura di Anna Giannatiempo Quinzio e Gianni Carrera, che mantiene come base la traduzione del Fabro.

La libertà espressiva che la forma-diario consente, produce una eterogeneità di testi difficilmente omologabili sotto forme pre-costituite. Al contrario, ogni genere di letteratura può trovarsi in esso, soprattutto se lo scrittore è infaticabile come Kierkegaard. Non ci sono regole, convenzioni, dettami da rispettare. Nei Diari perciò troviamo anzitutto brani che riportano considerazioni sul proprio stato emotivo-esistenziale, talvolta in forma di “confessioni”, di soliloqui, talvolta in forma di grida, implorazioni, talvolta in forma di preghiere. Le preghiere rivolte a Dio sono perciò numerose, talvolta anche molto lunghe e articolate. L’esegesi di versetti biblici occupa anch’essa un posto rilevante – una esegesi “esistenziale”, non strettamente filologica – così come gli aforismi – corti, taglienti, profondi – e le riflessioni/meditazioni di più ampio respiro. Nei Diari si ritrovano prime stesure di sue opere (introduzioni, note, commenti, post-fazioni) e indicazioni ermeneutiche per la lettura delle stesse, o delle “intenzioni” dell’autore medesimo. Brevi saggetti e bozze di copioni teatrali compaiono di tanto in tanto, insieme a incipit di storie, aneddoti, casistiche umane, e racconti più o meno sviluppati. Vi sono poi resoconti di viaggi, lettere, trascrizioni di poesie e citazioni, talvolta commentati, talvolta no. Tante annotazioni brevi, spesso singole parole annotate. Molti interventi sono di tipo polemico, sarcastico, su autori, personaggi, colleghi contemporanei.

Generi letterari e tematiche proprie della speculazione di Kierkegaard si intrecciano in maniera libera e multiforme. Certamente dominano due macro-tematiche: 1) la propria situazione esistenziale (emotiva, intellettuale, spirituale, sociale…) esposta e spesso riproposta in preghiera. Testi intimi, testi di esplicitazione della propria auto-coscienza personale, aforismi, metafore, immagini… su se stesso. 2) La Realtà del Cristianesimo, affrontata da molteplici aspetti: l’ortodossia e le devianze di esso; l’esegesi di versetti biblici, sia con taglio teologico, che esistenziale; la redenzione, commentata, esplicitata, annotata come scoperta; la dottrina della grazia e del peccato; i confronti tra il Cattolicesimo e il Luteranesimo; l’omiletica; la preghiera.

Questi due macro-temi, variamente intrecciati, possono considerarsi la tonalità di fondo di ogni annotazione delle Carte. Kierkegaard non ha fatto altro che parlare del Cristianesimo, «servirne la causa», «rendere attenti al cristianesimo» (X2 A 174), dal suo personale punto di vista che non è altro che coinvolgimento globale della sua singolarità (non per mettere in mostra sé, ma per dar attenzione alla «personalità come decisiva per la realtà cristiana», (X2 A 174). Ogni considerazione anche teorica, ha in «filigrana» (II A 413) questo intendimento.

In questa prospettiva si sviluppano anche gli altri temi: la Comunicazione [vii], entro cui rientrano questioni sulla scrittura, lo scrivere, la grammatica; l’analisi letteraria; le considerazioni sulla letteratura contemporanea e su autori contemporanei; la poesia.  La Storia e la contemporaneità, rilette in chiave di teologia della storia; filosofia della storia; teologia della politica. La polemica con l’Hegelismo, altro filo rosso della speculazione teoretica di Kierkegaard. Sono presenti ovviamente anche alcuni suoi temi caratteristici, che sappiamo egli sviluppa nelle sue Opere. Tra questi: il rapporto estetica-etica-fede; il salto tra gli stadi di vita; il dubbio, la fede, il paradosso; l’amore e il matrimonio; la questione del Singolo versus la Folla.

Il fraseggio, la proprietà di linguaggio, il modo di scrivere, come già ricordava il Fabro, sono complessi, come il loro autore. E come uno che non ha paura del paradosso, spesso troviamo a convivere caratteri antitetici. Lo stile, infatti è pungente e polemico, ma anche intimo, dolce e confidente; in tensione tra una sofferenza estrema e un vigore combattivo senza pari; lucido, tagliente, penetrante, ma anche confuso, ellittico e allusivo; aforistico e insieme prolisso; sistematico e immaginifico; serrato e divagante allo stesso tempo. E, naturalmente, ironico, tagliente e provocatorio.

 



[i] Cfr. A. Badiou, L’antifilosofia di Wittgenstein, a cura di S. Oliva, Mimesis 2018.

[ii] Postilla conclusiva, parte II, sec. 2, c. 2.

[iii] Cornelio Fabro, Introduzione a S. Kierkegaard, Opere, cit., p. XXI.

[iv] Tutte le Carte sono divise in tre macro-sezioni, di cui i Diari sono propriamente solo la prima sezione.

[v] S. Kierkegaard, Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972.

[vi] Cornelio Fabro, Introduzione, cit., p. XI.

[vii] È in commercio una straordinaria raccolta, a cura di Cornelio Fabro, degli Scritti sulla comunicazione, Orthotes Editrice, Napoli-Salerno 2015.

Docente di Filosofia presso Istituto di Scienze Religiose Ecclesia Mater