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Albert Einstein, il ricordo di uno spirito libero

Aprile 2005
Sigfrido Boffi
Dipartimento di Fisica Nucleare e Teorica - Università di Pavia

«Se mi si chiedesse una biografia di Einstein in un frase, direi: “Era l'uomo più libero che io abbia mai conosciuto”. Se dovessi comporre una sua biografia scientifica in una frase, scriverei: “Meglio di ogni altri prima di lui sapeva come inventare i principi di invarianza e utilizzare le fluttuazioni statistiche”.»

Alle parole di Abraham Pais si deve premettere che l'opera di Albert Einstein (Ulm, 1879 - Princeton 1955) corona tre secoli di indagine della natura e apre la fisica novecentesca allo studio degli effetti relativistici e quantistici. Il suo spirito libero e anticonformista, evidente nella foto scattatagli nel giorno del suo settantaduesimo compleanno con gli occhi spalancati e la lingua a cascata da sotto i pesanti baffoni, si manifestò fin da ragazzo nell'indipendenza con cui studiava le materie scolastiche e nella scelta del liceo cantonale svizzero di Aarau, a lui più congeniale dell'austero ginnasio di Monaco cui l'avevano iscritto i genitori. Nell'atmosfera liberale della Svizzera di allora ebbe così modo di sviluppare un'insofferenza ad ogni regola che potesse costringere la libera espressione delle facoltà dell'uomo. Qui, accanto alla sua prima compagna, la serba Mileva Mariã, scelta di nuovo contro la volontà dei genitori, formò le radici del suo impegno per la pace e i diritti civili che lo caratterizzarono nell'età matura. Ormai famoso e celebrato, proprio lui, che non era certo un ebreo osservante e che poteva far valere la cittadinanza svizzera ottenuta nel 1901, di fronte al nazismo incombente abbandona la Germania nel 1932 lasciando la cattedra ricoperta per vent'anni all'Università di Berlino e dimettendosi dalla gloriosa Accademia delle Scienze di Prussia: “la vita senza libertà, per un uomo che abbia rispetto di se stesso, non è degna di essere vissuta”, “solo uomini liberi realizzano quelle scoperte e quelle opere intellettuali che ci rendono oggi la vita meritevole di essere vissuta”. Trasferitosi a Princeton, può continuare nelle sue ricerche, libero da preoccupazioni didattiche, ma non dall'impegno crescente per i diritti umani che lo porta a raccomandare al presidente Roosvelt la costruzione della bomba nucleare: il suo naturale pacifismo viene sopraffatto dal principio etico superiore della salvezza dell'umanità dalla barbarie del nazismo. A guerra finita i programmi di disarmo nucleare lo vedono tra i protagonisti e per questo i servizi segreti americani aprono un ampio dossier su di lui come sospetto collaboratore dei movimenti di sinistra, senza però giungere a conclusioni significative. L'Olocausto lo rinsalda nei suoi sentimenti ebraici in appoggio al sionismo: egli si riconosce negli ideali di giustizia sociale e di rispetto di ogni forma di aspirazione intellettuale e di attività spirituale che hanno contribuito a tenere uniti gli ebrei nella storia. Ma il suo carattere schivo e la consapevole insofferenza della politica e del compromesso gli fanno rifiutare l'offerta di diventare Presidente del nascente stato di Israele.

In campo scientifico il suo spirito libero si rivela fin dai primi lavori. Praticamente autodidatta, senza particolari legami con il mondo accademico e da oscuro impiegato di terza classe all'ufficio del registro federale di Berna, egli affronta temi marginali per la grande maggioranza dei fisici dell'epoca, ma fondamentali nella ricerca di una descrizione unitaria dei fenomeni della natura. E lo fa con uno stile tutto suo, manifestando il disagio intellettuale di fronte non a fatti sperimentali nuovi, ma a incongruità formali che potrebbero apparire estetiche e che invece celano l'inadeguatezza dei concetti di base della teoria. L'analisi critica di questi concetti gli offre una nuova prospettiva per superare il disagio e, soprattutto, dischiudere nuovi orizzonti, come nei tre lavori del 1905 sulla generazione e trasformazione della luce, sul moto delle particelle in sospensione nei fluidi e sull'elettrodinamica dei corpi in movimento.

Ma l'unità stilistica riflette una più profonda unità concettuale.

Affascinato fin da piccolo dal rigore logico delle dimostrazioni della geometria euclidea, fondata su pochi assiomi frutto di libera invenzione dell'intelletto umano, ma capace di produrre risultati indubitabili e utili nell'interpretazione della realtà, coltiva l'idea, spregiudicata e ambiziosa, che la totalità delle esperienze sensoriali si possa ordinare col pensiero formulando un numero minimo di concetti astratti e di relazioni fondamentali da cui derivare logicamente tutti i concetti e le relazioni che collegano i fatti della fisica.

Sviluppando i metodi statistici della teoria cinetico-molecolare del calore impostata da Boltzmann e senza conoscere gli analoghi studi di Gibbs, Einstein collega la stabilità di un sistema alla sua entropia e alle fluttuazioni dell'energia intorno al suo valore medio e nel 1905 applica il metodo statistico allo studio della radiazione e dell'effetto fotoelettrico (per il quale riceverà il premio Nobel nel 1922) e del moto browniano (convincendo anche i più scettici della natura atomistica della materia). Sono le fluttuazioni di energia che gli permettono nel 1909 di confermare gli aspetti corpuscolari della radiazione e nel 1917 di affrontare i processi di emissione e di assorbimento della radiazione in termini quantistici prima che fosse inventata la meccanica quantistica. Nel 1924 sono di nuovo le fluttuazioni di energia che consentono ad Einstein, stimolato dal lavoro di Satyendra Nath Bose, di assimilare le particelle di un gas ai quanti di luce e scoprire il comportamento statistico bosonico che poi Dirac identificherà come proprio delle particelle quantistiche a spin intero.

È la ricerca dei principi che gli fa scoprire nel 1905 l'impossibilità di attribuire un significato assoluto al concetto di simultaneità: assumendo l'invarianza delle leggi della fisica rispetto al cambiamento del sistema di riferimento (inerziale) e l'indipendenza della velocità della luce dal moto della sorgente, non c'è più bisogno di postulare l'etere per riconciliare l'elettromagnetismo alla meccanica, perché viceversa viene riformulata la meccanica per accordarla con l'elettromagnetismo. Il passo successivo del 1915, l'estensione del principio di invarianza delle leggi della fisica a sistemi accelerati nella teoria della relatività generale, appare naturale. Invece non solo si trattò di identificare il giusto principio che unifica la teoria della gravitazione con l'elettromagnetismo, il principio di equivalenza che stabilisce il legame diretto tra la gravitazione e la cinematica dell'accelerazione, ma anche fu necessario un duro lavoro di apprendimento dello strumento matematico adeguato, il calcolo tensoriale. Spazio e tempo, gli assoluti kantiani già trasformati nello spazio-tempo relativistico, prendono ora forma dal tensore energetico della materia e la gravità diventa un effetto geometrico. Perciò il perielio di Mercurio compie un moto di precessione e la luce di una stella viene incurvata dalla presenza del sole. Le conseguenze cosmologiche indicano un universo evolutivo che si espande o si contrae. Dopo la scoperta del moto di allontanamento delle galassie dalla terra, Einstein, che crede invece in un universo chiuso e statico, compie quello che definirà “l'errore più grande della mia vita”: introduce una costante, la cosiddetta costante cosmologica, che determina un contributo al tensore energetico derivante dallo spazio vuoto. Oggi questo contributo, essenziale nel distinguere i modelli di universo possibili, è invece oggetto di grande attenzione anche alla luce del ruolo che ha il vuoto quantistico.

La chiarificazione dei concetti attraverso un'analisi epistemologica e la loro applicazione fisica in maniera controllabile sono punti centrali del metodo scientifico di Einstein collegati alla sua idea di realtà: “Ogni serio esame di una teoria fisica presuppone la distinzione tra la realtà oggettiva, che è indipendente da qualsiasi teoria, e i concetti fisici con cui la teoria stessa opera. Si presuppone che questi concetti corrispondano alla realtà oggettiva, e con essi noi ci rappresentiamo la realtà”. La correttezza di una teoria viene giudicata in base al grado di accordo tra le sue conclusioni e l'esperienza umana. Ma la teoria deve essere anche completa, nel senso che “ciascun elemento della realtà fisica deve avere una controparte nella teoria fisica”. Questa posizione, esplicitata nel 1935 nel paradosso proposto con Podolsky e Rosen, presuppone e rivendica la descrizione deterministica e causale della fisica classica ottocentesca in opposizione all'indeterminismo della fisica quantistica.

Einstein crede fermamente in una natura ordinata armonicamente secondo regole comprensibili dalla ragione e traducibili in espressioni matematiche. Lo stupore illimitato che prova dinanzi alla struttura della realtà diventa quasi un fatto religioso che lo guida nella sua ricerca e che allo stesso tempo gli rivela la presenza di un Dio ordinatore. Perciò “la scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca”. Il Dio di Einstein, come quello di Spinoza, non è un Dio personale che si preoccupa del destino e delle azioni degli uomini: “l'uomo che è totalmente convinto dell'operare universale della legge della causalità non si può trattenere neppure per un momento sull'idea di un essere che interferisca nel corso degli eventi”. Einstein pensa a Dio come a un'entità sovrapersonale che si manifesta all'uomo nelle leggi del cosmo: per questo, nel rifiutare la visione quantistica del mondo, afferma che “Dio non gioca a dadi”. Lo scienziato che indaga su queste leggi entra nel mistero di Dio: quando scopre i principi e le connessioni dell'universo pensa i pensieri di Dio e ne contempla la grandezza. Ne deriva un senso di grande meraviglia e umiltà di fronte al cosmo, pur nella fiducia nella forza della ragione.

La teoria della relatività indica che la forma esteriore di ciò che esiste nello spazio e nel tempo può cambiare a seconda dell'osservatore, ma la sua struttura ontologica resta invariante a riprova di un ordine che riflette la presenza di un Dio fedele, che non imbroglia: “sottile è il Signore, ma non malizioso”. Perciò non ci si può accontentare di descrivere il come , secondo la visione suggerita dalla meccanica quantistica, ma occorre aspirare al perché : così scienza e religione si conciliano puntando al fondamento ultimo dell'universo.

Questo suo realismo metafisico, come lo definì Popper, gli impedisce di accettare l'interpretazione della meccanica quantistica che Niels Bohr gli oppose in anni di animate discussioni; non gli fa neppure trovare i giusti principi che possano realizzare il sogno più ambizioso inseguito per oltre trent'anni: completare la grande opera di unificazione della fisica superando il dualismo onda-corpuscolo in una teoria unitaria di campo, strettamente causale, che unifichi gravitazione e elettromagnetismo e da cui le particelle elementari emergano come soluzioni particolari delle equazioni generali del campo continuo. Dopo le difficoltà nei rapporti familiari, coi genitori, con Mileva e i figli, attenuate dal secondo matrimonio con la cugina Elsa, dalle attenzioni premurose della segretaria Helen Dukas e dalla lunga e impareggiabile amicizia di Michele Besso, questi insuccessi forse contribuiscono a donargli quello sguardo saggio e po' triste, coronato da bianchi e fluenti capelli, che caratterizza le fotografie dell'Einstein più maturo.

Ma la sua ostinata opposizione alla meccanica quantistica trova oggi molti seguaci nel tentativo di conciliare l'indetermismo quantistico con la causalità classica, e l'unificazione della gravitazione con le altre forze fondamentali note rimane tuttora un sogno perseguito da molti fisici teorici sostenuti, come Einstein, dall'idea che “ogni uomo può trarre conforto dalle meravigliose parole di Lessing, secondo cui la ricerca della verità è più preziosa del suo possesso”.

 

Aprile 2005
Giuseppe Tanzella-Nitti
ordinario di Teologia fondamentale - Pontificia Università della Santa Croce

La scomparsa di Giovanni Paolo II segna una tappa della storia contemporanea che va ben al di là della conclusione di uno dei pontificati della Chiesa cattolica. Sono moltissime le persone, nei cinque continenti, che in queste ore si rendono progressivamente conto di cosa gli insegnamenti e le riflessioni di questo Papa, filosofo e pastore, padre e testimone, hanno comportato per ciascuno. Ognuno sente questo pontificato come qualcosa di proprio. Ne coglie la premura e le esortazioni come rivolte specialmente a sé, uomo o donna, operaio o intellettuale, artista o studente, giovane o anziano, sacerdote o laico; e ne ricorda frasi, parole, documenti, come indirizzati alla specifica situazione esistenziale nella quale ognuno si è trovato e si trova ogni giorno. E succede anche a noi, che ci occupiamo di un servizio di Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede. Un servizio, ne siamo certi, che senza questo pontificato difficilmente sarebbe venuto alla luce, perché sorto da quel clima di apprezzamento dell'impresa scientifica e di rivalutazione delle sue dimensioni umanistiche —non ultime quelle esistenziali e religiose— che ha trovato in Giovanni Paolo II un ispiratore appassionato e convinto. Altri contesti, assai meglio che queste righe, saranno luoghi adeguati per offire un bilancio di quanto gli insegnamenti del professore di etica di Cracovia, chiamato alla cattedra di Pietro, abbiamo influito sul raggungimento di nuove sintesi fra fede e cultura, fra vangelo e vita intellettuale. Il numero di documenti di Giovanni Paolo II ospitati in questo Portale aventi una qualche attinenza con il mondo della ricerca scientifica e della cultura basterebbe, da solo, a mostrare che un tale bilancio non solo è possibile, ma è anche doveroso. «La sintesi fra cultura e fede —affermava Giovanni Paolo II in una occasione— non è solo un'esigenza della cultura, ma anche della fede... Se, infatti, è vero che la fede non si identifica con nessuna cultura ed è indipendente rispetto a tutte le culture, non è meno vero che, proprio per questo, la fede è chiamata ad ispirare, ad impregnare ogni cultura. È tutto l'uomo nella concretezza della sua esigenza quotidiana, che è salvato in Cristo ed è, perciò, tutto l'uomo che deve realizzarsi in Cristo. Una fede che non diventa cultura non è una fede pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» ( Discorso ai partecipanti al Congresso Nazionale del Movimento Ecclesiale di Impegno culturale , 16 gennaio 1982).

Non era abituale vedere un Papa che parlasse la lingua degli universitari e degli scienziati, che li ascoltasse volentieri, che si trattenesse insieme a loro. È difficile trovare, negli oltre 100 discorsi indirizzati a comunità accademiche di tutto il mondo, parole che possano suonare retoriche o di semplice convenienza. I temi coinvolti sono sempre stati impegnativi e centrali: dalla responsabilità etica degli scienziati, alla loro ricerca di Dio; dal sereno esame di vicende scomode, come quelle legate a Galileo o alla teoria dell'evoluzione, al superamento di vecchie incomprensioni; dalla necessità del dialogo fra discipline scientifiche ed umanistiche, al riconoscimento dei valori spirituali presenti nella ricerca scientifica e perfino nella tecnica; dalla passione per la ricerca della verità, ovunque essa si trovi, all'importanza che tale ricerca mantenga la sua autonomia e non venga asservita ai poteri politici o economici. «Oggi —si rivolgeva così a scienziati e studenti nella Cattedrale di Colonia il 15 novembre 1980— di fronte alla crisi del significato della scienza, alle molteplici minacce che insidiano la sua libertà, e alla problematicità del progresso, i fronti di lotta si sono invertiti. Oggi è la Chiesa che prende le difese: della ragione e della scienza, riconoscendole la capacità di raggiungere la verità, il che appunto la legittima quale attuazione dell'umano; della libertà della scienza, per cui questa possiede la sua dignità di un bene umano e personale; del progresso a servizio di una umanità, che ne abbisogna per la sicurezza della sua vita e della sua dignità». Quanto ascoltato alla sede dell'UNESCO a Parigi o al CERN di Ginevra, alla Pontificia Accademia delle Scienze a Roma o al Centro Majorana di Erice, quanto ricordato agli universitari di Colonia o di Bologna, di Uppsala o di Lovanio, rappresenta un bagaglio di riflessioni che ciascuno di noi, impegnato nella docenza universitaria o nel lavoro di ricerca, potrà tornare a meditare per comprenderne l'attualità e, in certa misura, il valore a tratti profetico.

Ma c'è qualcosa che va al di là di questi interventi di Giovanni Paolo II e in certo modo ne rivela la ragione profonda. Abbiamo ricevuto l'esempio di un uomo che non ha avuto paura della verità, e che ha vissuto in prima persona quel “non abbiate paura, spalancate le porte” che segnò l'inizio del suo pontificato, aiutando a fare altrettanto ai credenti e a tutti gli uomini di buona volontà. Ne è derivato un clima di maggiore fiducia per coloro che condividono l'esperienza della fede, confortati dal fatto che la loro ricerca intellettuale non solo non entrava in contrasto con quanto creduto, ma poteva anche aiutare a meglio comprendere tutta la ricchezza della Parola di Dio; mentre coloro che non condividevano tale esperienza ricevevano uno stimolo ad esercitare fino in fondo la responsabilità del conoscere, evitando pregiudizi ed impegnandosi per accostarsi senza sconti alla verità. Gli uni e gli altri, grazie agli insegnamenti proposti da questo Papa, hanno trovato spunti intellettuali per superare una condizione di disillusione o di scetticismo, sentendosi incoraggiati a cercare una vera unità del sapere e, in definitiva, esortati al fatto che la ricerca della verità, nella scienza come nella fede, non solo è possibile, ma è ciò che rende davvero umana la propria esistenza. È giunto il momento di rendersi conto che abbiamo ricevuto un'eredità. Sarebbe un peccato non comprenderne il valore e non adoperarsi per farla fruttare. I credenti hanno in questo una responsabilità particolare, ma l'eredità è di tutti.