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L’azione di Dio nell’evoluzione

Jean-Michel Maldamé
2011

Complessità, Evoluzione, Uomo

Mettendo in luce la diversità ontologica fra l’azione trascendente di Dio creatore e le cause naturali che regolano le trasformazioni della materia e della vita, il teologo domenicano Jean-Michel Maldamé illustra in questo brano, con singolare chiarezza, in qual modo debba essere inteso il concorso tra l’azione divina e i fenomeni naturali oggetto della scienza. Elemento indispensabile per fare chiarezza su tale complessa tematica è comprendere la differenza fra un concetto di finalità forte, a livello intenzionale, e un concetto di teleonomia inerente la fenomenologia della vita e la sua evoluzione. Il riconoscimento della trascendenza di un Principio creatore non altera la comprensione delle leggi di natura, né impedisce alla natura stessa di esprimersi attraverso fenomeni aleatori, e dunque attraverso il caso.

La nozione di onnipotenza divina

Il dibattito tra atei, agnostici o scientisti, da un lato, e credenti ebrei, musulmani, cristiani, dall’altro, fa risaltare dei concetti ben diversi sull’onnipotenza divina. Per semplificare, si possono individuare due scuole di pensiero. Secondo una prima interpretazione, l’onnipotenza di Dio presuppone un potere assoluto. Il termine indica una volontà sovrana che non viene limitata da niente. Niente, cioè non viene sottomessa a nessuna regola; è fuori da ogni logica umana. Dio può così fare tutto e il contrario di tutto. Il credente non può allora fare altro che accettarlo senza fare domande. Per quanto mi riguarda, rifiuto questo concetto e mi colloco in una tradizione venerabile.

Riguardo il secondo modo di comprendere l’onnipotenza divina, Dio mette la sua volontà e la sua potenza al servizio di un piano di saggezza e di ragione. Crea così un mondo con intelligenza che si sviluppa secondo regole, leggi e dinamismi. Dio rispetta queste regole. Dio non violenta il corso naturale delle cose, essendo il creatore dell’ordine del mondo e del suo dinamismo. Dio non contraddice se stesso. La sua potenza è al servizio della sua saggezza. Ecco la mia posizione, potete già vedere che va nel senso del rispetto e della stima della scienza. Risulta infatti, da questa convinzione, che la scienza resta sovrana nel suo ordine, e che la spiegazione scientifica non deve appellarsi a Dio. I fenomeni si svolgono secondo il proprio ordine. Diceva Tommaso d’Aquino a questo proposito: «Non spogliamo le cose create dalle loro proprie azioni, anche se attribuiamo a Dio tutti gli effetti delle cose create dato che lui opera in tutte».1

 

Il concorso divino

Questo concetto introduce una domanda: come si accordano l’azione di Dio e quella degli uomini, o in modo più generico i processi della natura? Come accordare due attori responsabili?

A questo risponderò con un’immagine: quella della musica. Quando ascoltate un pezzo musicale (suonato con la chitarra), tutto quello che sentite viene dalla vibrazione delle corde. Ma quello che sentite viene anche dal musicista che interpreta il pezzo... Quello che sentite viene tutto dallo strumento e viene tutto dal musicista. Il 100% dall’uno e il 100% dall’altro. Allora possiamo dire 100% + 100% = 100%? Sarebbe una contraddizione. L'espressione ci invita a riconoscere che i due attori non sono dello stesso ordine. Per questo motivo si può dire che «è tutto dell’uno e tutto dell’altro». Perché gli attori sono diversi, collaborano senza escludersi. Questa immagine consente di capire l'atto creatore.

Lì, agisce Dio (fa come il musicista): fa tutto. Però lì, agisce anche la natura (fa come lo strumento): fa tutto. La natura fa tutto; il creatore fa tutto; non si escludono, perché il loro agire non è dello stesso ordine. Quando si pensa a Dio in quanto forza della natura, oppure quando uno se lo rappresenta come un fattore tra tanti altri fattori, la mente è portata a procedere per esclusione. O la natura è inerte e passiva, o Dio è inutile e superfluo. In quest’alternativa si collocano i creazionisti, prigionieri dallo stesso errore dei materialisti atei che essi criticano. Questo si trova ad essere in contraddizione con la nozione stessa di Dio come lo concepisce Tommaso d’Aquino: «Sembra chiaro che uno stesso effetto non viene attribuito alla sua attuale causa e a Dio, come se una parte fosse di Dio e l’altra della causa; è tutto interamente dell’uno e dell’altro, tramite modalità diverse però, così come uno stesso effetto dovuto interamente allo strumento e interamente alla causa principale».2

Questo elemento mi sembra importante per mettere in rilievo un punto dell’attuale dibattito. Alcuni rifiutano il valore della teoria dell’evoluzione perché si appella al caso. Dobbiamo fermarci un attimo su questo argomento: il concetto di caso viene infatti affettivamente sovraccaricato da una serie di elementi che rendono confuso il dibattito.

 

Dio e il caso

La teoria sintetica dell’evoluzione riconosce il carattere aleatorio delle mutazioni. Però il concetto di caso usato a questo proposito è confuso. Alcuni dicono che il riferimento al caso non sarebbe altro che la confessione di un’ignoranza, ma la fisica e la biologia mostrano che il caso si trova ad essere iscritto nei processi in modo intrinseco. Bisogna quindi analizzare il termine con precisione.

Il caso viene definito meglio con Aristotele, che lo presenta come l’incontro di due serie indipendenti di cause. Questa definizione è poi stata ripresa nella scienza classica da Cournot. Aristotele, per parlare di caso, usa il termine automaton, cioè quello che si fa senza finalità, da sé, senza entrare a far parte di un ordine o di un insieme seriale e legato da cause particolari senza finalità. Il senso ha valore nelle scienze umane.

Il concetto di caso è cambiato quando i matematici se ne sono appropriati. Nell’ambito di un calcolo il caso è diventato l’imprevedibile, secondo le leggi matematiche della natura. Le leggi permettono infatti di predire e di prevedere quello che succederà; il caso invece è la mancanza di previsione e di possibilità di anticipare. Il caso però non sfugge dal pensiero; può esser collocato nell’ambito di uno studio statistico, e viene calcolata la probabilità dell’avvenimento di quello che ci si aspetta (sperato o temuto). Si parla allora di fenomeno strettamente aleatorio. In questo senso la teoria dell’evoluzione riconosce che le mutazioni sono imprevedibili (nel tempo e nello spazio definiti dal genoma), ma anche che i loro effetti sono imprevedibili, poiché l’espressione del nuovo dipende da condizioni indipendenti dall’organismo in mutazione. Questa plasticità del reale viene espressa dal concetto filosofico di contingenza: ciò che potrebbe non essere e ciò che è pur potendo non essere. Ci si può allora chiedere se questa conclusione valida per la scienza lo sia anche per Dio, il cui sapere non è limitato.

Dai Greci in poi, si tramanda questo apologo. Il maestro manda due servitori al mercato; ognuno ignora quello che fa l’altro; il loro incontro è del tutto casuale, possono dire che si sono incontrati  «per caso». Per i creazionisti, l’affermazione dell’esistenza del caso è contro il riconoscimento dell’azione di Dio, e per questo motivo riconoscono negli eventi la realizzazione di un disegno divino.

Ma questo non è da considerare in senso stretto, perché se in effetti Dio sa tutto quello che sta per avvenire, in quanto è libero dalla temporalità, questa conoscenza non falsifica la realtà. Tommaso d’Aquino dice: «Andrebbe contro il concetto di provvidenza divina dire che nella realtà non ci fosse niente di fortuito o di casuale».3

 

Il fatto di ammettere che le mutazioni sono aleatorie e aprono vie imprevedibili anticipatamente non vuol dire che la teoria dell’evoluzione porti ad escludere il riconoscimento dell’atto creatore. Esso rispetta la natura dei fenomeni, per cui l’atto di far riferimento al caso non costituisce per forza un segno di ateismo; si tratta di riconoscere la contingenza dei fenomeni e questo fa parte del loro statuto. C’è il disegno di Dio quando lo sguardo si porta dal presente verso l’avvenire.

Dal punto di vista teologico, si può concludere che il concetto di contingenza va usato per esprimere il fatto che tutto ciò che è stato creato da Dio non è partecipe del carattere assoluto o necessario del suo essere. Ma deve anche venire usato per qualificare l’ordine della natura in cui gli esseri sono collegati da rapporti di causalità che definiscono il campo del possibile. La questione solleva una domanda specificamente teologica e il riferimento a Dio appare equivoco per il fatto della diversità tra i credenti che però si riferiscono alla stessa fonte biblica. Tra religione d’amore e religione di sottomissione c’è una grande differenza – ecco senz’altro il punto di rottura tra la nostra concezione e le correnti fondamentaliste e materialiste.

 

Parlare di finalità

Possiamo evocare il concetto di finalità nell’ambito di un dialogo con la scienza senza arrivare a una visione fissista della natura?

Il concetto di finalità trova un senso a partire dall’esperienza umana pensata nella tradizione filosofica. La finalità viene infatti capita a partire dall’azione umana – in modo emblematico – di un architetto che concepisce un progetto e poi lo realizza progressivamente, collocando gli atti necessari all’edificazione prevista in un ordine logico ed ottimale per quanto riguarda il consumo di energia, tempo e risorse. Questo concetto di finalità non fa più parte della scienza per il fatto della sua matematizzazione, che tralascia la visione aristotelica della natura per prendere in considerazione solo il rapporto e il gioco delle forze o dei trasferimenti d’energie. Le leggi della natura dettano solo un ordine; non dettano quello che si riferisce allo scopo o all’intenzione. La teoria scientifica dell’evoluzione s’iscrive in questa prospettiva.

Il concetto generico di finalità sarebbe allora definitivamente scartato? No, perché i biologi stessi constatano che questo non consente loro di motivare cos’è la vita quando si collocano al livello dell’organismo, tenendo conto del fatto che il vivente è un essere fortemente unificato. Il concetto di finalità ritorna allora con l’uso del termine “teleonomia”, costruito dalla parola greca telos, il termine, lo scopo o la finalità. Il termine fa parte del discorso scientifico. Prendiamo atto di questa permanenza per usare il termine come concetto. Questo s’iscrive in una teoria del sistema; prende atto del fatto che un essere vivente è composto da elementi diversi: non solo sono proporzionati gli uni rispetto agli altri, ma si regolano a seconda degli altri nella definizione di un equilibrio interno legato all’atto di vivere. In un essere vivente c’è una tensione verso l’unità. Si costruisce se stesso.

Il concetto di teleonomia può appoggiarsi su diversi elementi ed in modo particolare sull’embriologia nella quale, infatti, lo sviluppo consente di vedere la concatenazione di diverse fasi per la costituzione di un organismo unificato in grado di affrontare le difficoltà della vita. Il concetto moderno, fatto per analogia con l’informatica, parla di 'programma'. Qui non si tratta di un elemento esterno, bensì della capacità che ha un organismo di organizzarsi per il proprio bene, nel tempo, grazie a dei meccanismi di autoregolazione mirati alla miglior realizzazione della sue capacità. C’è quindi una finalità. Il rinnovamento della teoria dell’evoluzione nello spirito del cosiddetto ' evo-devo ' (che sta per evoluzione e sviluppo) non può che confermarlo. Qui si ritrova il concetto sviluppato da Kant, che scarta la finalità in senso lato per riconoscerne il ruolo solo ai fini dell’unità dell’essere vivente. La teoria dell’evoluzione non dà a vedere linee diritte, ma cespugli – un corallo, per riprendere l’espressione di Darwin. Parecchie linee divergono, si sostituiscono; la specie dominante è una 'sopravvissuta' che non possiamo considerare migliore delle altre. Questa filosofia è diventata il bene comune degli scienziati che riconoscono il ruolo della selezione.

Insistiamo sul fatto che il dibattito non verte sui fatti, ma sulla loro interpretazione e pertanto sulla filosofia immanente al lavoro scientifico. Per questo motivo, dal punto di vista filosofico, bisogna distinguere teleonomia e teleologia. Il concetto di teleologia – la finalità in senso stretto – va scartato dalla filosofia immanente al lavoro scientifico, mentre il termine teleonomia va conservato per esprimere l’unità del vivente e il suo dinamismo . Il concetto di teleologia è riservato ad un visione specificamente metafisica; non è un elemento delle teoria scientifica bensì una risposta alla questione del senso del processo evolutivo.

 

Un disegno creatore

Collocato il concetto di finalità sul piano metafisico, diventa ormai possibile entrare in teologia ; essa consente di qualificare l’azione di Dio creatore e il suo intento.

L’uso del termine, attinto dall’esperienza umana del lavoro dell’architetto, si basa sulla convinzione della trascendenza di Dio. La sua azione non è sottomessa alle leggi della natura in cui gli attori si trovano iscritti in una legge vincolante. Il ricorso al concetto di finalità è fondato su una certa concezione dell’atto creatore di Dio: non si tratta di un’azione su gli esseri, bensì di un’azione affinché gli esseri siano. Infatti la creazione è una produzione totale dell’essere. Non verte su qualcosa di preesistente.

Purtroppo, l’idea comune di creazione, caratterizzata da una concezione determinista dell’azione, la riduce al primo attimo della durata degli esseri. In questa prospettiva si incontrano difficoltà nell’associare l’azione di Dio e l’autonomia degli esseri. Questo concetto stretto ignora che la creazione è un atto presente. Il disegno di Dio è una qualità dell’atto creatore, la cui realizzazione viene presa in considerazione nel corso del processo temporale.

Il disegno di Dio non va pensato come intervento sui soggetti ai fini di contraddire la loro natura. L’azione di Dio va pensata come dono dell’essere verso quello che è singolare e forma un tutto, il mondo. Per lo scienziato, è un universo nel senso che i fenomeni vi si svolgono secondo delle leggi. Viene chiamato creazione dal punto di vista teologico quando si avverte che consente la realizzazione di una stessa unica volontà. Questa prospettiva mette l’accento sulla sua unità e sul dinamismo del movimento che l’orienta verso una realizzazione, senza alterare niente nel gioco e nell’interazione degli elementi tra di loro. Tommaso d’Aquino lo diceva nel contesto in cui rifiutava il necessitarismo dei filosofi arabi: «Nonostante questa estensione della potenza divina a tutti i suoi effetti, non è tanto più vano che questi siano prodotti da certe altre cause. Questo non è dovuto all’insufficienza della virtù di Dio, bensì alla sua immensa bontà che ha voluto comunicare alle cose una tale somiglianza con lui che, non solo esse sono, ma sono anche cause degli altri; in questi due modi ogni creatura si trova ad essere partecipe della somiglianza di Dio, come è stato dimostrato. Così può ancora splendere la bellezza dell’ordine nella creazione».4Questo riconoscimento della bontà di Dio costituisce la base della ragione per la quale abbiamo rifiutato le scuole di pensiero fondamentaliste o materialiste fondate su una visione troppo stretta di Dio e della sua azione.

Nell’ambito dell’opzione metafisica, che riconosce un principio trascendente creatore, l’uso del concetto di finalità è riuscito ad imporsi. Il concetto di creazione entra in armonia con i risultati delle scienze per proporre di parlare di disegno divino. Questa espressione ha il merito di riconoscere l’importanza del divenire manifestato nella storia della vita sul pianeta Terra e si apre ad altre prospettive – vita extraterrestre, biogenesi coestensiva alla cosmogenesi…

 

Conclusione

È importante notare che il riconoscimento della trascendenza del principio creatore è legato a due affermazioni. Primo, non altera le leggi della natura che esso pone. Poi, il riconoscimento dell’azione del creatore viene espresso in un linguaggio filosofico; questo traspone quello che viene compreso partendo dall’azione umana. Questa concettualizzazione non lascia i concetti allo stesso livello di linguaggio. L’uso dei termini provenienti dall’esperienza umana va corretto: non deve portare ad ignorare il fatto che il linguaggio passa attraverso un momento di negazione. Dire che Dio è creatore necessita che uno si basi sull’esperienza umana della produzione, però anche che questa produzione è di un altro ordine – l’ex nihilo della formula tradizionale è questo momento negativo. Così come parlare del disegno divino secondo l’immagine del lavoro dell’architetto richiede di essere corretto dalle negazioni che riguardano le modalità dell’azione. Il senso della trascendenza impone il ricorso a una negazione presente all’interno dell’affermazione.

Questa flessibilità del linguaggio consente di andare oltre e di affermare che l’atto creatore al presente non è solo un dono dell’essere che sarebbe il frutto di una necessità o di una legge, ma un atto libero. Il fatto di riconoscere la libertà dell’atto creatore permette di andare oltre e così di entrare in una prospettiva nuova, che va oltre la metafisica per parlare di amore. L’atto creatore non viene considerato come appartenente alla rete delle ragioni necessarie; è gratuità e pertanto viene chiamato amore. Non dobbiamo quindi meravigliarci che la teologia della creazione abbia conosciuto il suo maggiore sviluppo nella luce del Vangelo, in quanto rivelazione di un Dio d’amore.

 

1 Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, lib. III, cap. 99.

2 Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, lib. III, cap. 70.

3 Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, lib. III, cap. 73.

4 Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, lib. III, cap. 70.

    

Jean-Michel Maldamé, L’azione di Dio nell’evoluzione, in F. Facchini (a cura di), Complessità, Evoluzione, Uomo, Jaca Book, Milano 2011, pp. 251-259.